Animalia VI – Liberazione umano-animale e koinè

[Traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 15 aprile 2024, ultimo incontro del percorso Animalia]

Nulla turba più i sapiens del silenzio,
o quello che a loro appare silenzio,
degli animali.
(F. Cimatti)

(Prologo)
Senzaparole è un albo illustrato dell’artista spagnolo Roger Olmos, pubblicato nel 2014, ormai dieci anni fa: si tratta di un piccolo capolavoro che rappresenta con alcune straordinarie illustrazioni il nostro rapporto criminale – non saprei come altro definirlo – con il mondo animale, ovvero con quei soggetti che sono senza parole, ma la cui infinita sofferenza ha cominciato a trovarle, a parlare, anzi a gridare. Senza parole non sono solo gli animali, ma innanzitutto noi umani, che distogliamo lo sguardo, che per vivere in una società fondata sul sangue e sulla violenza, dobbiamo innanzitutto rimuovere, tenere nascosta, non nominare e rendere invisibile proprio l’enorme gabbia che tiene imprigionata una moltitudine di viventi sfruttati. Ecco, partiamo proprio da qui, da questa rimozione, che è ancor più grave se viene imputata ai pensatori, ai filosofi, a coloro che invece le parole dovrebbero saperle trovare.
Partiamo dallo stupore di Peter Singer, uno dei grandi maestri dell’animalismo e dell’antispecismo, di fronte a questo mutismo.

1.
«La filosofia dovrebbe mettere in discussione gli assunti fondamentali di ogni epoca» sostiene Peter Singer verso la fine di Liberazione animale: «riflettere, criticamente e attentamente, su ciò che la maggior parte di noi dà per scontato costituisce, io credo, il compito principale della filosofia».
Ma non sempre è stato così. Spesso i filosofi hanno distolto lo sguardo – e nel caso dell’oppressione animale si può dire che lo hanno fatto per lo più.
Singer ricorda come Aristotele abbia preso un abbaglio clamoroso sulla natura della schiavitù, limitandosi a giustificare l’esistente: donne, bambini, schiavi e animali sono i sottoposti, gli “addomesticati” dell’ordine zoo-politico-militare secondo la visione padronale dell’Aristotele politico. La guerra, in questa visione, è lo strumento del dominio comune sugli animali come sugli uomini “nati per obbedire” (Politica, 1256b). La gerarchia aristotelica si manterrà per oltre due millenni pressoché invariata (salvo rimescolare le carte con l’elogio della biologia e la comunanza di tutti i corpi, in un ambito che non è però più politico ma estetico e cognitivo).
Il punto più basso, sempre secondo Singer – e lo abbiamo ricordato in più occasioni – è stata la visione cartesiana degli animali-macchine-orologi diffusasi a partire dal ‘600, che trasformò gli animali in oggetti, strumenti, cose da usare a piacimento. Fu in quel periodo che si diffuse la pratica della vivisezione, come testimoniato da un allievo di una scuola dell’epoca:

«Somministravano bastonate ai cani con perfetta indifferenza, e deridevano chi compativa queste creature come se provassero dolore. Dicevano che gli animali erano orologi; che le grida che emettevano quando venivano percossi erano soltanto il rumore di una piccola molla che era stata toccata, e che il corpo nel complesso era privo di sensibilità».

Secondo il teologo francese Malebranche  «si può maltrattare un cane senza curarsi dei suoi guaiti, semplici stridori di una macchina mal lubrificata». Sempre di Malebranche si narra un episodio in cui avrebbe preso a calci una cagna gravida solo per essersi accoccolata ai suoi piedi, giustificando poi il gesto con l’asserzione che tanto non avrebbe sentito dolore, e che, soprattutto, Dio non avrebbe mai permesso a miliardi di esseri innocenti – quali sono gli animali privi di peccato – di provare dolore (l’episodio è ben raccontato da Calasso ne Il cacciatore celeste).

Al che Voltaire, qualche tempo dopo, avrebbe replicato con amara ironia:

«Rispondimi, meccanicista, la natura ha dunque combinato in questo animale tutte le molle del sentimento perché non senta?».

Non tutti i filosofi sono stati silenziosi di fronte allo sfruttamento animale: Plutarco, Giordano Bruno, Montaigne, Voltaire, Bentham… non hanno girato lo sguardo, ma si tratta comunque di eccezioni.

Quel che proveremo a fare stasera, a compimento del percorso dei 5 precedenti incontri, è lacerare definitivamente il velo di quel silenzio, il fenomeno che nasconde il noumeno, così da provare a raggiungere l’essenza profonda dello specismo, ovvero un’intera e complessa organizzazione sociale fondata sullo sfruttamento degli animali sia umani che non umani. Senza identificare, e poi trasformare profondamente questo tipo di società ingiusta, non potremo mai superare lo specismo – e questo vale anche per il razzismo, il sessismo, il militarismo, ogni forma di suprematismo. Da questo punto di vista non potrà non essere criticata ogni visione animalista di tipo esclusivamente morale o individualista: come ha ben argomentato Marco Maurizi, nel suo saggio Antispecismo politico, in prima linea nella battaglia per associare la questione animale alla questione sociale, ponendola su un piano politico e non solo etico.

Possiamo ritenere Peter Singer col suo Liberazione animale e Tom Regan con i suoi scritti sui diritti animali (tra cui Gabbie vuote), come i fondatori e i promotori di un vasto movimento, diffusosi specialmente nel mondo anglosassone, che ha senz’altro il merito di aver posto con grande radicalità il tema dello specismo. Ne vedremo brevemente gli aspetti fondamentali, insieme ad alcuni limiti.

2.
Liberazione animale di Peter Singer (la cui prima edizione, poi rivista, è del 1975) è un vero e proprio manifesto dell’antispecismo, costruito a partire dalla posizione morale brillantemente esposta da Jeremy Bentham, fondatore dell’utilitarismo: la domanda non è se gli animali non umani siano o meno intelligenti, coscienti, dotati di linguaggio, ecc. ma se essi possono soffrire – Can they suffer? Dunque il punto di partenza è proprio la messa in discussione del modello meccanicistico cartesiano. Non solo: Bentham , che non a caso scrive nel 1789, avvicina con estrema chiarezza razzismo e specismo (per quanto non nominandoli), come generati dal medesimo sistema tirannico:

«Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba venire irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle o la terminazione dell’osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso destino. Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali, e più comunicativi, di un bambino di un giorno, o di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: “Possono ragionare?” né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”».

La questione morale qui sottesa riguarda quindi la necessità di minimizzare il dolore anche per gli animali in quanto esseri senzienti, secondo la prospettiva utilitaristica (la massima felicità per il maggior numero, siano essi umani o animali, accomunati proprio dal loro essere senzienti). Due secoli dopo, Singer si pone la stessa domanda, trasformandola nella questione degli “interessi”, prima ancora che in quella dei diritti: che interessi hanno gli animali in quanto esseri senzienti e dunque niente affatto diversi, sotto questa prospettiva, dagli umani?
I due casi ampiamente analizzati e documentati, che senz’altro destarono molto scalpore (e preoccupazione in alcuni distretti produttivi) sono quelli della sperimentazione animale e dell’allevamento finalizzato all’alimentazione.
Gli esperimenti fatti sugli animali e denunciati da Singer sono degni di Mengele, a partire dalla macabra fantasia dei nomi o delle pratiche: ruota dello stupro, pozzo della disperazione, tunnel del terrore… per non parlare delle varie deprivazioni sensoriali, dello shuttle box, delle ciotole elettrificate, di privazione materna, ecc.
Si tratta per lo più di esperimenti inutili, tautologici, deliranti, persino nel campo più sensibile per gli umani, ovvero quello della medicina: non c’è nessun dato oggettivo certo che vivisezionare gli animali abbia portato ad un miglioramento della salute umana.
Vi è poi da rilevare un paradosso: proprio perché gli esperimenti sono finalizzati all’uso umano, si devono “umanizzare” gli animali, altrimenti non avrebbero nessuna utilità; ma con ciò si ammette implicitamente che sì, gli animali soffrono, eccome!
Qui non c’è ad ogni modo nessun sadismo individuale, quanto piuttosto la mentalità istituzionalizzata dello specismo, che richiama quella cartesiana: una logica comportamentista, asettica, meccanica. Passi la sperimentazione salvavita, ma i rossetti? I test di tossicità per tutti i prodotti cosmetici, i detersivi, o gli inutilissimi test psicologici?
Vi è poi, ovviamente, tutta la parte dedicata ai lager e ai macelli industriali, al relativo trattamento degli animali nella catena alimentare, ecc. – la cui unica conclusione logica per Singer non può che essere la scelta vegetariana. Qui la questione andrebbe discussa con un taglio molto più ampio, andando a scavare in campo storico e antropologico, per ritrovare quel filo evolutivo (per quanto non predeterminato) che ci ha portato alla caccia e a una dieta in parte carnea e non più essenzialmente frugivora come era in origine, con quel che comporta in termini simbolici il rito della caccia, le dinamiche del sacrificio, del capro espiatorio, ecc. Tali passaggi sono strettamente connessi ai passaggi organizzativi, produttivi ed economici dei vari tipi di società: il passaggio all’agricoltura, per cui fu determinante la domesticazione ed infine l’approdo all’industrializzazione di tipo capitalistico, con l’avvio di una massiva produzione e trasformazione di animali in cibo e prodotti di ogni tipo, compreso quello affettivo. Modi di produzione e modelli sociali storicamente determinati, del tutto contingenti e niente affatto necessari a priori.

[Citerei per questi passaggi e per la loro funzione sia simbolica sia relativa all’accumulazione originaria – caput pare sia all’origine del termine capitalismo – il bel saggio di Giulia Di Loreto, Animalità tradita, proprio sulle origini antropologiche dello specismo. Molto interessanti anche le analisi di Roberto Calasso nel capitolo “Sapienti e predatori” tratto dal già citato Il cacciatore celeste, a proposito del passaggio di Homo ergaster in Africa alla predazione, in un’epoca che va da due milioni a un milione di anni fa, non prima però di avere condiviso per un lungo periodo la pratica saprofaga sui resti dei grandi predatori insieme alle iene (fu probabilmente l’osservazione delle specie saprofaghe ad avere sollecitato la curiosità nei confronti della “droga” proteica, estraibile dalle ossa delle vittime predate)].

Singer fa seguire a questa ampia sezione del suo saggio (che occupa oltre ⅔) una parte teorica, dove tutta l’argomentazione ruota attorno al principio etico dell’interesse degli animali: di taglio utilitaristico e consequenzialista, essa non può fondarsi su impulsi emotivi o compassionevoli. Non è quindi il pietismo o il sentimentalismo, l’amore per gli animali e la natura, o simili che possono costituire il fondamento solido dell’antispecismo, ma solo ed esclusivamente la ragione. La vera sfida è però come sconfiggere praticamente lo specismo, in una società che ha edificato se stessa essenzialmente sullo sfruttamento animale.

3.
L’altro grande ispiratore del movimento antispecista è il filosofo statunitense Tom Regan, che sembra assumere una posizione ancor più radicale di Singer: il principio etico viene qui ad avere un fondamento di tipo ontologico. Ovvero, l’estensione dei diritti umani agli animali non è una concessione relativa agli interessi, ma si fonda sulla constatazione oggettiva e scientifica che gli animali non umani sono – come quelli umani – “soggetti-di-vita”.
Lo avevamo visto in un incontro precedente, a proposito della teoria della soggettività propugnata da Marchesini: ma il loro essere soggetti non si fonda sugli elementi cognitivi o di coscienza, quanto piuttosto sul loro essere “desideranti”, soggetti vitali.
La prospettiva, qui, sembra farsi più radicale: che cosa si prova ad essere un pipistrello o un qualunque individuo animale, questo è il punto. E la risposta è una sola: ogni individuo animale – per lo meno mammiferi, uccelli e finanche i pesci, quindi grosso modo tutti i vertebrati – è un soggetto di vita, ha una storia, una prospettiva di esistenza, delle relazioni, un passato e un futuro, ecc. Tutto ciò che sembrava esclusivo appannaggio del mondo umano viene così esteso a una parte del mondo non umano: ma non si tratta di diritti derivanti da una qualche facoltà specifica, quanto piuttosto dalla soggettività in sé, dall’individualità. Si capisce facilmente come questa linea di pensiero possa essere facilmente estesa a tutto il mondo animale: ogni individuo animale è un soggetto, e pertanto possiede, non per concessione ma per costituzione ontologica, dei diritti. Diritto alla vita, all’esistenza, che – proprio perché fondata ontologicamente – non viene concessa da qualcuno o dall’alto, ma è sorgiva: in tal senso i diritti umani sia umani che animali hanno un fondamento unitario, potremmo dire “naturale”. Il mio diritto si fonda sul fatto che io esisto. Ed ecco perché, secondo questa prospettiva, risulterebbe problematico stabilire delle linee di confine tra ciò che è soggetto e ciò che non lo è.
Il mondo vegetale, ad esempio, costituisce in tal senso un problema: ogni essere vivente, in quanto vivente, non deve forse essere preservato, rispettato, lasciato esistere?

[La filosofa francese Florence Burgat aveva eccepito a questa estensione, basandosi sull’assunto hegeliano che caratterizza l’animale come pervaso da “un sentimento d’incertezza, di ansietà e d’infelicità”: l’animale, poiché spontaneamente in movimento, lascia liberamente il luogo in cui si trova per andare oltre se stesso, recarsi altrove, “da qualche parte”. Ciò lo renderebbe in qualche misura “separato” dal mondo, che diventa pertanto un “mondo ostile”. È questo un motore della soggettività, a cui le piante non sembrano partecipare. Ma la questione andrebbe ovviamente approfondita]

Ciò non toglie che, nelle relazioni interspecifiche, ci siano conflitti, catene eterotrofe, elementi di violenza, ecc. Non stiamo disegnando il mondo utopico della “felicità messianica” di Isaia 11:6-10, dove il lupo abiterà con l’agnello, la pantera s’accovaccerà col capretto, vitello e leone pascoleranno insieme, e così via. D’altro canto nemmeno una descrizione “darwiniana” dura e pura, di lotta per l’esistenza, di guerra tra specie appare del tutto veritiera: quando Eraclito dice che pòlemos governa tutte le cose, proietta forse il conflitto umano sull’intera natura, che certo non manca di conflittualità ma non è nemmeno riducibile ad essa. Sempre Eraclito, infatti, pensa che dai contrasti emerge una forma di armonia e di misura, che dunque sono modi di essere altrettanto validi per descrivere la realtà.

4.
Detto questo, tanto le tesi di Regan quanto quelle di Singer, ma più in generale sia la teoria che la prassi dei movimenti di liberazione animale, paiono scontare un limite morale e individualistico di fondo: non è un caso che la chiusa di Liberazione animale chiami in causa proprio l’individuo e la sua risposta morale, anziché la dimensione sociale del problema specista.
Occorre quindi allargare l’orizzonte dello sguardo e dell’analisi all’intero assetto sociale, produttivo, economico, di cui certo lo sfruttamento animale è parte imprescindibile, ma occorre ricordare che è l’intero modo di produzione capitalistica ad essere fondato sullo sfruttamento, sull’alienazione, sulla mercificazione dei corpi, compresi quelli umani.
È il capitale ad aver eretto la macchina dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sull’animale, come parti di un unico sistema. Se anche si migliorassero le condizioni degli animali, senza mettere in discussione l’intero modello produttivo, non usciremmo affatto da tale logica dello sfruttamento. È il sistema del capitale che, di nuovo, deve essere criticato nei suoi fondamenti. Anche andando oltre la prospettiva marxiana, che riteneva la natura il “corpo inorganico” dell’uomo: tale concezione non può più funzionare, nemmeno in una ipotesi socialista o comunista. La natura è un soggetto, o meglio un insieme di soggetti, non può più essere inteso come macchina, giacimento di risorse, oggetto o strumento, sia essa sfruttata dai capitalisti o dalla comunità dei lavoratori. Il punto sta proprio nella logica dello “sfruttamento” e della gerarchia che la regge.

Ecco perché ha ragione il filosofo romano Maurizi a vedere nell’antispecismo puramente morale un grosso limite, se non diventa antispecismo politico. Similmente il pacifismo moralista nei confronti della struttura militarista della società, non coglie il noumeno, l’essenziale, ma solo il fenomeno, l’elemento esteriore. Il cuore del problema rimane intoccato, e sperare che una scelta individuale (come quella alimentare) possa contagiare gli altri è solo una pia illusione. Così Maurizi espone l’inversione del rapporto reale/ideale, secondo una chiara visione materialistica e marxista:

«Lo specismo non è affatto solo un pregiudizio ma anche, se non soprattutto, una forma materiale di sfruttamento che viene giustificata (e certo rinforzata) dal pregiudizio. L’impostazione corrente della prassi conflittuale compie l’errore di considerare prioritaria la lotta contro il pregiudizio invece che contro l’attività materiale di sfruttamento. Cioè inverte l’ordine di priorità tra ideale e materiale»

5.
Ma entrambi i percorsi, sia individuali che sociali, fin qui prospettati, paiono avere dei limiti intrinseci, e non essere all’altezza del compito: l’individualismo e il proselitismo (convincere gli altri a diventare animalisti, vegetariani, ecc.) sono senz’altro limitati, ma anche l’approccio sistemico, di trasformazione sociale, appare oggi un’impresa che richiede uno sforzo immane (soprattutto di immaginazione) e tempi lunghi. Salvo pensare che il sistema sia ai limiti di un improvviso crollo (per contraddizioni interne, o collasso ecosistemico) – ma qui entreremmo nel campo dell’ignoto o delle sfere di cristallo, che non attengono alla ragione. O, peggio, nelle spire nere del catastrofismo apocalittico e dell’estinzionismo.
Nel frattempo, mentre si temporeggia (questa è una delle figure cui si rivolge Regan: i temporeggiatori), sia individualmente che socialmente, si può provare a rianimalizzarsi, a percorrere cioè una strada di riscoperta del corpo animale, del corpo “selvaggio”.
Al di là della digitalizzazione e della teriofobia (ovvero della paura dell’animale che è in noi: per questo tema si veda sia l’ultimo capitolo del libro di Maurizi, sia il libro di Cimatti Filosofia dell’animalità).
Prefigurare, immaginare, progettare ciò che potrà essere (concetti-progetti come quelli di cui parlava Luciano Parinetto): un possibile neocomunismo interspecifico attraverso la rianimalizzazione, il ritorno ad un contatto profondo col proprio essere animale-naturale. Solo in tal senso l’animale o l’animalità non è più un’astrazione, ma una forma di co-esistenza e di con-essere. Sembra essere la via proposta da Cimatti, che la chiama anche una “involuzione creatrice”, una deposizione dell’Io e una ripresa di possesso della corporeità: il problema dello specismo è Io. Non si tratta di liberare l’Io, ma di liberarsi dell’Io, della trascendenza, dell’amor proprio, del narcisismo proprietario, avido e accumulatore,  così da riappropriarsi del corpo, dell’immanenza e della possibilità di essere – qui e ora – che da sempre siamo.

Ma tutto questo come può essere immaginato, prima ancora di essere praticato?
Io credo che ci sia un ospite inquietante con cui non abbiamo fatto i conti, ovvero la tecnica. È possibile liberarsi della tecnica? Io credo proprio di no. Noi siamo essenzialmente tecnici, la tecnica è un potenziamento del corpo. Ecco, forse la chiave sta in questo: più che potenziare l’Io (e la sua boria, la sua hybris, la dismisura di cui parla Eraclito), la tecnica dovrebbe servire a potenziare i corpi. Tutti i corpi. In questa prospettiva, potremmo immaginare un uso sociale ed interspecifico della tecnica: la tecnica al servizio di animali umani e non umani, della natura e non del profitto, dell’avidità o della guerra.
Forse Prometeo non potrà salvarci, ma certo potremo rivolgere la tecnica alla preservazione anziché alla distruzione: ovvero al suo uso essenzialmente sociale. Sta a noi determinarne una destinazione comune, anziché privata, diffusa. Ma questo significa anche una riappropriazione del politico, un superamento della dittatura dell’economico sul politico, dell’io sul noi. Ovvero un totale rovesciamento degli attuali rapporti gerarchici di sfruttamento e della mentalità suprematista e specista che li giustifica, rimuovendone gli aspetti violenti e di guerra permanente alla natura.

Forse proprio in questo ossimoro – riappropriazione del corpo, anche nei suoi lati “selvaggi”, e tecnica al servizio della più ampia comunità possibile di viventi – sta il nuovo orizzonte dell’utopia.

***

La parola con cui ci lasciamo è koiné. Dal greco koinos (comune), koinonia (quella che sarà poi la communitas latina), la koiné è la comunità linguistica della tarda classicità greca, ovvero quel fenomeno di unificazione della lingua al di sopra dei dialetti e dei localismi, che avviene in concomitanza con l’affermarsi dell’impero alessandrino e della conseguente diffusione della cultura ellenistica, ciò che porterà poi la lingua greca ad essere la seconda lingua dell’impero romano.
Si tratta di un fenomeno che ha anche degli aspetti problematici, ovvero il rischio di schiacciare la diversità in nome di una universalità imposta dall’alto – ma le lingue e le culture non si muovono mai in maniera così unilaterale, e elementi di diversità finiscono sempre per confluire nei processi di unificazione.
Ad ogni modo, noi qui vogliamo intendere koiné in un’accezione molto più ampia e dialettica: ovvero come ricerca dal basso di un nuovo linguaggio comune del vivente. Qual è oggi la koiné che possa unificare tutti i viventi, gli umani e i non umani? Una risposta ci viene forse da uno dei più antichi e grandi filosofi: in uno dei suoi frammenti sulla dialettica tra veglia e sonno che caratterizza la condizione umana, Eraclito dice:

Per coloro che sono svegli il cosmo è comune ed unico, ma quando dormono ciascuno si rivolge a ciò che gli è proprio.

Vi è cioè un’unità profonda del cosmo e di tutte le cose, degli esseri e dei viventi – ovvero il logos, la ragione profonda che li unifica. Ma per lo più noi non la vediamo, perché viviamo in una sorta di bolla privata e scissa dalla natura. Quella natura che ama nascondersi, e il cui senso va ricercato e indagato a lungo.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

17 pensieri riguardo “Animalia VI – Liberazione umano-animale e koinè”

  1. ciao MD

    dissertazione affascinante ; dici che il convertirsi di tutti alla dieta vegetariana non è che una utopia; penso invece che sarebbe una orribile distopia ; ti sei chiesto le conseguenze di un tale avvenimento ?

    franco

  2. in realtà una orribile distopia è già in atto, basta solo spostare il punto di vista dall’animale umano all’animale non umano: non è forse un inferno quotidiano quello che riguarda miliardi di soggetti viventi in gran parte non necessari al mantenimento della vita umana, ma utili al profitto e a mantenere un sistema produttivo folle e distruttivo?

  3. ciao MD

    mi scuso per non aver risposto mercoledì a causa di imprevisti di lavoro; un mondo di vegetariani lo vedo più come una distopia preoccupante che una utopia difficilmente realizzabile; se 8 miliardi di persone fossero vegetariane probabilmente non si avrebbero aree coltivabili sufficienti e anche fosse si perderebbero molte specie vegetali magari gustose e ricche in vitamine ma con un apporto energetico trascurabile ; verrebbero coltivate solo piante ad alto contenuto calorico quindi cereali, patate e poco altro; basta dare un’occhiata al panorama delle vastissime aree agricole asiatiche per rendersi conto che sono dedicate alla monocoltura del riso invadendo anche le colline con i terrazzamenti ; gli alberi da frutto sono per lo più ornamentali e fino a tempi recenti presenti solo nei giardini delle classi dominanti ,esempio eclatante i ciliegi in Giappone ; se devi sfamare con la sola agricoltura la gente non puoi permetterti di coltivare fragole , asparagi,radicchio trevigiano o altre amenità alimentari che rendono varia la dieta; inoltre si avrebbe il problema degli animali non più macellati che ,nonostante la riduzione del numero, occuperebbero spazi molto ampi e sottratti alle aree coltivabili in quanto andrebbe loro riservato un diritto di pascolo se non vogliamo condannarli alla morte per inedia ; è triste dirlo ma gli allevamenti intensivi,dove gli animali sono ammassati brutalmente con nemmeno lo spazio per muoversi,sono un concentrato di energia disponibile e a basso costo ; questa è la realtà della produzione alimentare di massa che comunque ha permesso di fornire cibo a tutti a costi contenuti; basta andare indietro di poco cioè agli anni 50 per vedere che la spesa alimentare rappresentava il 45/50 delle entrate delle famiglie medie mentre oggi non arriva al 18% liberando quindi risorse per altri consumi .

    Mi sembra quindi necessario non solo dire cosa fare ma come farlo e quali conseguenze si hanno una volta fatto ; la critica ragionata svolge il suo importantissimo compito nell’ analizzare abitudini e paradigmi culturali errati o obsoleti ma nel contempo deve guardare a quello che nella realtà del mondo fisico non è modificabile se non in parte con la tecnica ed inoltre valutare le conseguenze ed i costi di tali modifiche.

    franco

  4. Beh, ma i miliardi di animali – che sono nostri prodotti – si nutrono di vegetali. Partiamo da qui. Il passaggio al vegetarianesimo è un processo, una riconversione sistemica che richiede tempo, ma non vedo ragioni – se non l’avidità del capitale – per non provare a percorrerla. D’altro canto occorrerà anche pensare ad un processo di denatalità (peraltro forse già in corso). A dire come fare, poi, c’è la tecnica: usarla per quello, non per il profitto o la distruttività bellica. Sarà un passaggio faticoso? Perché, c’è stato qualche trasformazione umana non faticosa?

  5. ciao

    non tieni conto di un fatto importantissimo : gli animali terrestri di cui ci nutriamo sono per lo più erbivori ( non i maiali o altri animali che fanno parte della dieta di altre culture) ma gli animali marini che sono una parte fondamentale della dieta in molti paesi asiatici ,Giappone in testa, non sono erbivori …si mangiano tra di loro ,quasi tutti ed i pochi che si nutrono esclusivamente di alghe hanno un sapore decisamente non gradevole ; questa importante risorsa alimentare animale con cosa la sostituisci ?…pensa se i giapponesi ed altri popoli dell’estremo oriente non mangiassero più pesce ma solo piante…dove le coltiverebbero ?…inoltre non solo loro avrebbero problemi insormontabili ma anche noi se pur im misura minore in quanto anche nel mondo occidentale i consumi di prodotti ittici sono in costante aumento .

    A meno che non facciamo una gerarchia del mondo animale…il vitello no ma il branzino sì…come del resto fatto molti vegetariani dell’ultima ora …la bistecca no ma le vongole sì e qualche volta anche gli scampi…ma fare tale gerarchia non penso proprio sia nelle tue intenzioni in quanto hai onestà intellettuale.

    franco

  6. p.s.

    tra l’altro questa ipocrita gerarchia esiste già…condanniamo i coreani perché mangiano carne di cane …disapproviamo altri popoli perché mangiano animali che noi consideriamo simpatici…

    a Pasqua c’è la campagna in favore degli agnellini ma mai quella a favore dei maialini …il cacciatore che uccide un cinghiale e lo mangia è un mostro ma se lo compriamo di allevamento allora niente da dire…ma gli animali allo stato brado che vengono uccisi dai cacciatori hanno vissuto una vita molto migliore di quelli costretti negli allevamenti…ed inoltre almeno hanno la possibilità di nascondersi o fuggire e di fare fesso il cacciatore…lo stesso si può dire dei tori da corrida che fanno una vita invidiabile e muoiono combattendo sul campo ,sicuramente con più onore che in un macello …quest’ultima è un po’ estrema lo ammetto, ma denuncia il nostro modo ipocrita di valutare il nostro rapporto con gli animali…

  7. Beh ma già adesso non sono pochi i paesi privi di “sovranità alimentare”, basterebbe supplire con scambi e commerci. Magari meno folli di quanto non siano adesso

  8. L’ipocrisia è superabile proprio decostruendo e togliendo la gerarchia. Ci vorrà tempo? Probabilmente sì, come ci è voluto tempo per costruirle quelle gerarchie e i costumi alimentari. Ma ora – per necessità di sopravvivenza ecosistemica – ne avremo molto meno. Il consumo carneo massivo è comunque distruttivo, e sta impattando in pochi decenni sulla natura come mai era avvenuto nelle ere precedenti. Se la prima trasformazione fu lentissima questa dovrà procedere più rapidamente. Poi certo, c’è anche l’opzione estinzionista, che ad alcuni animalisti piace…

  9. l’ Italia è uno di quelli ; siamo autosufficienti solo per pochi prodotti come i pomodori da sugo;i cereali e altri prodotti di base siamo costretti ad importarli non avendo a disposizione ampie aree agricole come ad esempio i francesi o gli americani; ma il fatto del commercio non risolve nulla in quanto si tratta della disponibilità di aree coltivabili a livello planetario, esse risulterebbero insufficienti ; sostituendo carne e pesce con prodotti vegetali si rischierebbe la fame per ampi gruppi …e si sa già quali; i vegetariani vanno bene finché sono una stretta minoranza e comunque fanno già danni : la quinoa è diventata di moda tra vegetariani e vegani ; essa cresce nei vasti altopiani andini della fascia equatoriale e solo lì ; non riesci a coltivarla ad altitudini inferiori ed ad altre latitudini a 3500/4000 metri non coltivi nulla; essa rappresenta una fonte importante di proteine vegetali ed altre componenti per i popoli andini con la quale integrano la loro dieta principalmente basata su patate ed occasionalmente carne di animali selvatici o di maiale o di manzo…alla domenica i meno poveri…ma ora il prezzo della quinoa è decuplicato per l’esportazione nei paesi ricchi…agli indios restano le patate…essere vegetariani o vegani è spesso diventato un vezzo ; io sono vegetariano dal lunedì al venerdì con rare eccezioni perché mi fa stare meglio ma non compro la quinoa , mangio prodotti locali di stagione…ma mangiare la quinoa “ fa figo “…e così altre cose esotiche…tu conosci operai metalmeccanici vegetariani?…o muratori?…o camionisti?…io no…conosco qualche vegetariano di lunga data e ne apprezzo la scelta morale ma gli ultimi arrivati sono per lo più patetici…

    franco

  10. p.s.

    sono d’accordo sul consumo di carne massivo anche perché non è certo buono per la salute ed è altamente inquinante; per portarti un tavola una bistecca di 250 gr. ci vogliono circa 15.000 litri d’acqua…ma un consumo decisamente più moderato con un prodotto di qualità che nel contempo possa garantire un livello di vita accettabile agli animali lo trovo approvabile; se poi parliamo della uccisione il discorso diventa complicato ed in balia di considerazioni morali ognuna portatrice delle sue ragioni ; resta una scelta personale che non qualifica come migliore o peggiore una persona.

  11. p.s.

    è vero ed il pesce allevato è nutrito com mangimi la cui componente principale è farina di pesce…praticamente alleviamo carnivori…ma è alla portata di tutti o quasi…

    franco

  12. il punto, però, che volevo sottolineare è che non si tratta di una questione morale (o non solo), ma di modificare un intero sistema produttivo e di consumo: tempo fa vidi dei dati sugli sprechi alimentari che fanno venire i brividi, già solo con quelli si potrebbero sfamare intere fasce di popolazione che hanno insufficienze alimentari. Ma ho il sospetto che lo spreco è costitutivo di questo sistema, non si tratta di un effetto collaterale evitabile.

    Ad ogni modo il vero problema, a ben pensarci, sta nel modello metropolitano: è ovvio che se ammassi miliardi di persone nelle città, devi poi costruire dei sistemi intensivi per nutrirli. Ma così come sono stati favoriti o imposti questi processi, non vedo perché non possano essere sostituiti con altri, meno dannosi e meno problematici sul piano etico. Girala come vuoi, ma se la carne o il pesce grondassero sangue dagli scaffali dei supermercati, qualche scrupolo in più ce lo faremmo.

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