Animalia V – Mechané, con una nota sul concetto di clinamen

Massimo Kaufmann, Clinamen 2013

[traccia del Gruppo di discussione filosofica dell’11 marzo 2024]

Parleremo questa sera di “riduzionismo”, ovvero di quella concezione tipica della scienza moderna che riduce la natura a “oggetto”, “elemento”, “meccanismo” – producendo conseguentemente una mentalità che la intende come cosa, risorsa, giacimento a disposizione degli umani. Secondo questa visione, tutto è riducibile a materia, non esistono principi “irriducibili” che sfuggano all’analisi fisica: tutto è fisico (che diventa sinonimo di naturale), tutto è spiegabile attraverso leggi fisico-materiali. La coscienza, l’etica, l’arte, le leggi, il pensiero, i sentimenti sono riducibili al loro sostrato biologico-evolutivo che è riducibile a quello biochimico che è a sua volta riducibile al piano fisico: un brillante esempio di operazione riduzionistica della vita è quella operata dal fisico quantistico Schrödinger, nel breve saggio Che cos’è la vita? – salvo dover concludere con una serie di osservazioni che alludono, come vedremo, ad un “problema difficile” da risolvere.
Ci muoveremo quindi su questo doppio binario: riduzione ed irriducibilità, risoluzione di tutti i problemi al livello fisico, e “problema difficile”.

A ben vedere già in origine del pensiero filosofico vi è una tendenza a “ridurre” la natura (la physis) ai suoi elementi essenziali, all’arché o alle leggi fisiche primarie (rarefazione/condensazione, atomi, elementi, ecc.).
Vi è anche da dire che, nonostante il meccanicismo deterministico, e dunque una prima forma importante di riduzionismo, si sia presentato nelle teorie atomistiche di Democrito, la concezione prevalente nel mondo greco sarà di tipo “animistico”: un animismo razionale, non magico o mitico, secondo la visione di Platone che si prolunga e stabilizza anche nella visione stoica della natura. La physis è un organismo vivente, una totalità animata (già Anassagora aveva teorizzato la presenza di un principio intelligente, ovvero il nous, che parrebbe introdurre una visione finalistica), per cui le concezioni materialiste e meccaniciste dei presocratici sono senz’altro in minoranza.

Tale visione “animista” e finalista si ripropone nel Medioevo, e non poteva essere altrimenti, dato che la natura discende da Dio, viene da lui creata e, però, si rivela al contempo come un “libro” problematico da leggere ed interpretare, i cui segni sono spesso enigmatici, indecifrabili, persino terrifici.
Sarà Galilei a riprendere le prime intuizioni meccaniciste dei greci e a rivedere radicalmente la metafora medievale della natura-libro in senso radicalmente diverso: per leggere nel mondo naturale occorre conoscerne il linguaggio, e questo è senza alcun dubbio un linguaggio matematico. I fenomeni sono regolati da leggi geometriche, sono retti da numeri e rapporti quantitativi: per la prima volta si presenta in modo netto la differenza tra qualità (il modo soggettivo di percepire) e quantità, ovvero le leggi che regolano le forme materiali e il movimento (nei filosofi moderni si distingue tra qualità primarie e secondarie).
Tale visione viene ulteriormente chiarita da Cartesio, sia in termini metodologici (nel Discorso sul metodo si fa riferimento proprio alla analisi-riduzione dei fenomeni ai loro elementi semplici, così da poterli poi ordinare e connettere in una sintesi controllata) che in termini ontologici: l’essere è fatto di due sostanze, una di tipo materiale-meccanico (l’estensione), una di tipo razionale-soggettivo (il pensiero). Res extensa, res cogitans, i due principi che daranno origine a una lunga serie di dualismi: materia/spirito, corpo/anima, visibile/invisibile, macchina/spirito, esteriorità/interiorità fino a quello più recente di mente e cervello.
La cosa interessante di Cartesio è che la creazione di un’ontologia – la visione dell’essere secondo cui il mondo fisico si riduce a macchina – viene generata a partire da una gnoseologia, ciò che avveniva, anche se in modo meno consapevole, anche in Galileo: la res cogitans (essenzialmente matematica) richiede e richiama la res extensa. L’unica cosa di cui sono certo è la mia mente pensante, ma è attraverso la mia mente che sono in grado di concepire un cosmo ordinato e meccanico. Semplicemente geniale – anche perché, come si vedrà a breve, la cosa funzionava!
Ridurre il mondo alle sue funzioni permetterà di piegarlo ai nostri bisogni.

È proprio agli inizi dell’epoca moderna, e di una radicale svolta sistemica con i nuovi fenomeni economici (mercantilismo, accumulazione originaria, capitalismo, industrialismo), che la concezione della natura muta quindi radicalmente: non è più una totalità animata, né qualcosa di sacro, inviolabile, temibile, misterioso, ma un’enorme macchina fatta di leggi meccaniche pronta ad essere utilizzata. Proprio la leggibilità matematica consente di esplicitarne le funzioni e piegarne le forze a vantaggio delle forze produttive.
Interessante, da questo punto di vista, la trasformazione che il concetto di mechané subisce.
La parola greca mechané in origine significava astuzia, inganno, artificio, strumento. Méchos, che compare in Omero, equivale a risorsa o artificio.
La mechané era il marchingegno usato dal teatro greco per sollevare in aria gli attori ( in latino deus ex machina) – da cui segue l’uso per indicare in generale le macchine nei vari campi di utilizzo. Il pitagorico Archita da Taranto fu forse il primo filosofo (IV sec. a.C.) a scrivere un trattato di meccanica. Il termine “macchina” si deve al tarantino machana, da cui i romani trassero machina. Parallelamente all’interesse per le macchine e i loro prodigi, vi è quello per gli automi, fin dall’antichità, con una ripresa nel Rinascimento.
Interessante che nel significato originario di questo termine ci sia proprio inganno e artificio: solo così è possibile operare contro-natura, destando profonda meraviglia nello spettatore. Con Galilei – e più in generale con la rivoluzione scientifica – verrà però a cadere ogni elemento di meraviglia in ciò che è meccanico, perché esso diventa semmai il modo di funzionare della natura: proprio perché è essa stessa meccanica, matematica, quantitativa, è possibile ricavarne vantaggi. Dunque non contro, ma assecondando (e conoscendo) la natura, techné (arte) e mechané possono moltiplicare i loro effetti benefici sugli umani.

Questa idea farà un salto straordinario nel XIX secolo: in campo biologico Darwin, in campo ideologico-filosofico Comte e il positivismo, in campo socioeconomico Marx – in tutti i campi di indagine la visione materialista, meccanicista, determinista si insinua in modo profondo. Ogni fenomeno – sia naturale che sociale – è retto da leggi, e scoprire queste leggi permette di mutare, sfruttare, talvolta rivoluzionare le cose.
Si prenda ad esempio quel grandioso saggio nel primo libro del Capitale che è “Macchine e grande industria”, che fa seguito alle intuizioni già presenti nel Manifesto del partito comunista, a proposito del rapporto tra rivoluzione borghese e rivoluzione scientifica.
Interessante come anche qui Marx utilizzi metafore demoniache: già nel Manifesto lui ed Engels avevano usato la metafora goethiana dell’apprendista stregone; ora, con l’avvento del macchinismo nella grande industria, e l’uso sistematico delle novità tecnologiche, Marx parla di “mostro meccanico” e “forza demoniaca”, “terribili masse di ferro”, “macchine ciclopiche”. Marx nota come ormai le macchine vengano utilizzate per generare altre macchine, prefigurando una macchinizzazione integrale dei processi produttivi. Il macchinismo impatta poi su tutti i rapporti sociali: l’intera famiglia viene investita dalla tecnologia mettendo tutti al lavoro, anche i bambini. Il lavoratore viene incorporato nel sistema delle macchine, producendo nuove figure alienate e svuotate, nonché scissioni tra mente e corpo; il sistema delle macchine funziona come un “grande automa” che ordina e disciplina tutti i rapporti, precarizzando però i lavoratori.
Con questa analisi, Marx non intende affatto demonizzare le macchine, ed anzi critica il fenomeno del luddismo, perché sbaglia bersaglio: il problema non è la macchina in sé, ma la funzione sociale delle macchine, il loro uso capitalistico e volto a produrre plus-valore, non certo progresso per tutti e bene comune. In una società comunista le macchine svolgerebbero una funzione sociale universale, con un maggior campo d’azione (Marx esemplifica con i 2000 bambini-spazzacamini che, nonostante esistano le macchine per sostituirli, vengono venduti sul mercato inglese come corpi-macchine da sfruttare).

In questo processo ogni vivente, ogni vegetale, ogni animale, ogni ambiente, ogni ecosistema – suolo, sottosuolo, fiumi, laghi, montagne, valli, coste, mari, spazio – diventa oggetto, risorsa, cosa.
Gli stessi esseri umani, secondo la visione produttivistica e poi consumistica del capitale, diventano merci, oggetti, cose – vengono “reificati”. Si viene così costituendo una mega-macchina fatta di vari ingranaggi, sempre più complessa e sempre più estesa: ne vediamo l’ampio profilo oggi, in un sistema-mondo interconnesso, dove avanzano gli artificialia e arretrano i naturalia.
Un dato esemplificativo valga per tutti: da un calcolo fatto, si ricava che il peso dei manufatti (al 90% cemento, plastica, asfalto) ha recentemente superato l’equivalente del peso di massa biologica e vivente. Agli inizi del ‘900 gli “artificialia” erano l’1% ora superano il 100% in rapporto ai naturalia. La Cina nel solo 2021 ha prodotto la quantità di cemento prodotto dagli USA in un secolo (che già non era poco!).
E tutta questa macchina sta per essere consegnata al governo dell’intelligenza artificiale…

Nel corso del ‘900 non mancano filosofi e correnti di pensiero che esprimono un vero e proprio disagio della civiltà tecnologica: basti pensare a Günther Anders che ne L’uomo è antiquato (1956) denuncia l’asimmetria tra mondo umano e mondo tecnologico, con l’uomo costretto a provare una vera e propria “vergogna prometeica”, un senso di inferiorità e di minorità nei confronti delle macchine e della loro potenza, fino a sentirsi incapace di immaginare le conseguenze catastrofiche del riarmo atomico. Anche la Scuola di Francoforte, nel celebre saggio di Adorno e Horkheimer Dialettica dell’illuminismo, denuncia la riduzione della ragione umana a ragione strumentale; Heidegger e Severino sono arrivati a “soggettivizzare” la Tecnica, considerandola alla stregua di un movimento autonomo, del tutto sconnesso dalla volontà umana (Severino parlò di Apparato e di Paradiso dell’Apparato). Si tratta di immagini e di teorie che tendono a vedere un tramonto dell’umanità e il sorgere di una civiltà delle macchine che finirà per dominarci – non diversamente da un filone letterario e cinematografico che costruisce un diffuso immaginario distopico. Ciò nonostante le rivoluzioni tecnologiche e l’integrale macchinizzazione del mondo procedono a spron battuto.

E però… sta accadendo proprio in questa fase una nuova e radicale mutazione di visione della natura: dopo l’animismo, dopo il finalismo, dopo il determinismo, le rivoluzioni scientifiche del Novecento (su tutte la teoria della relatività e la fisica quantistica) ci fanno intravvedere un mondo che non ha più nulla di meccanico e ordinato, o che non è solo percepibile in tal modo. La grana fine della natura, le sue particelle invisibili, ci parlano di indeterminismo piuttosto che di determinismo, di relazioni o processi piuttosto che di oggetti o cose, organizzazioni più che strutture, ecc.
Insomma, la macchina si sta forse per smontare, rivelandoci un cuore della realtà molto più complesso, imprevedibile ed interconnesso di quanto non pensassimo.
Ovviamente si tratta dell’inizio di qualcosa di cui non sono ancora calcolabili le conseguenze, tenendo conto che le mentalità arrancano sempre dietro i cambi di paradigma.

All’interno di questo nuovo quadro, e con al centro il dibattito neuroscientifico e bioevolutivo, molto vivace specie a partire dagli anni ‘70, anche la visione riduzionista viene rivista e messa in discussione.
Dicevamo prima del “problema difficile”, un termine coniato dal filosofo della mente australiano David Chalmers, che può essere sintetizzato nella difficoltà di far emergere dal fisico il mentale, di fornire cioè una spiegazione razionale della nascita della coscienza, e in generale del mondo soggettivo-esperienziale. Queste le parole con cui Chalmers lo espose nel 1995:

«È innegabile che alcuni organismi siano soggetti della propria esperienza. Ma la domanda su come questi sistemi siano soggetti di esperienza è un mistero. Cosa fa sì che, quando il nostro sistema cognitivo è coinvolto in un’elaborazione di informazioni visiva e uditiva, noi abbiamo un’esperienza visiva e uditiva? Ad esempio la qualità del blu scuro o la sensazione del do centrale? Come spiegare perché si prova qualcosa davanti a un’immagine mentale o sperimentando un’emozione? Siamo praticamente tutti d’accordo sul fatto che l’esperienza sorga da una base fisica, ma non abbiamo una buona spiegazione di perché e come questo avvenga. Perché un processo fisico dovrebbe dare origine alla ricchezza della vita interiore? Obiettivamente, non se ne vede la ragione, eppure accade».

Come mai ad un certo punto nel mondo animale (secondo alcuni anche in quello vegetale, per lo meno in termini di omologia) è sorto il punto di vista soggettivo, quello che il filosofo Thomas Nagel esemplificò esattamente 50 anni fa nella celebre figura-domanda What is it like to be a bat?Che cosa si prova a (che effetto fa) essere un pipistrello?
Nagel inaugurò una ricerca che vide poi nel saggio Mente e cosmo: perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa del 2012 un tentativo di superare la classica alternativa tra creazionismo e materialismo (finalismo e determinismo, se si vuole), per provare a spiegare naturalisticamente (ma non in modo fisico-chimico) l’emergere soggettivo della coscienza nei processi vitali.
Il problema, però, è che “il problema difficile” – a questo punto direi l’enigma – sta proprio nel nodo di quell’emersione: come può un principio soggettivo, cosciente, desiderante emergere da un sostrato fisico-meccanico? Come faccio io a sorgere dal mio corpo? Com’è possibile questo salto ontologico? Come può nascere dalla materia la mente? Come può, da una macchina, venir fuori un modo libero di esistere? E reciprocamente: come può una macchina pensare, essere a tal punto cosciente da sentirsi una macchina?
La soluzione alternativa sembrerebbe essere quella della riproposizione, anche se in altri termini, del vecchio dualismo cartesiano: devono esserci due principi, fin dalle origini, uno fisiologico, l’altro intelligente.

Il fisico e tecnologo Federico Faggin, ad esempio, in un saggio molto ispirato, se non ardito, di impianto scientifico-mistico (!) opera addirittura un rovesciamento di prospettiva, ritenendo non solo irriducibile il principio soggettivo, ma ponendolo come arché, come origine di tutte le cose.
Nel far questo – il testo, di taglio divulgativo anche se non di semplice lettura si intitola proprio Irriducibile, edito da Mondadori nel 2022- chiama in causa tutta la tradizione idealistica occidentale (ma anche orientale), cioè quella tradizione messa ai margini dall’idea meccanicistica, riconnettendola con un apparente salto mortale alla fisica quantistica. Si parla così di “semi all’interno di un tutto Olistico” (con allusione evidente ad Anassagora), di “Uno” come interiorità di tutto ciò che esiste (Plotino), del rapporto tra conoscenza e creazione (solo conoscendo ed amando si può creare, ma ciò non è predeterminabile), di pampsichismo, di unità di coscienza o seity, chiaramente riferibili alle monadi leibniziane, ecc. Il rovesciamento che ne risulta è radicale: è l’interiorità ad essere originaria ed è dall’interiorità che sorge l’esteriorità, non viceversa. Sembra quasi una riedizione dell’idealismo, in chiave quantistica – ed anzi, sostiene l’autore, proprio la fisica quantistica risulterebbe comprensibile se letta con questa intenzione.

Una discussione molto più fisicalista, anche se problematica, della questione ci viene proposta dal neuroscienziato Mark Solms, che discute il “problema difficile” di Chalmers suggerendo una sua soluzione che sposta il fuoco della coscienza – e dunque del rapporto fisico-funzionale con l’evoluzione omeostatica del cervello e in ispecie del tronco encefalico – dalla funzione cognitiva a quella dell’affettività e dei sentimenti.
L’auto-organizzazione, la resistenza alla dispersione entropica, la dialettica piacere/dispiacere sono le forme emergenti della coscienza che ci consentono di ritenerla “parte della natura [che] può essere studiata matematicamente”.
(Queste tesi – argomentate nel volume La fonte nascosta: un viaggio all’origine della coscienza, edito da Adelphi nel 2023 – si trovano sintetizzate in un poscritto in 13 tesi, che richiama un intervento di Solms del 2019 al congresso annuale di Scienze della coscienza).
Mi pare che questa strada di ricerca sia più in linea con quella che Damasio infra-legge nella teoria degli affetti di Spinoza, e che sicuramente si inquadra in una visione materialistico-naturalistica, anche se non piattamente riduzionista, della natura.

Tuttavia credo che “il problema difficile” non abbia ancora trovato una soluzione convincente, e che la discussione e la ricerca proseguiranno a lungo e ci sarà ancora spazio – uno spazio forse irriducibile – anche per il punto di vista filosofico, purché esso sia attento a quel che succede nel campo scientifico ed evitando di rinchiudersi nella classica torre d’avorio (a proposito, perché si dice “torre d’avorio”?).

***

Nota: il concetto di clinamen

La figura del clinamen, termine latino utilizzato da Lucrezio nel De rerum natura, traducibile con “inclinazione”, risale nella sua accezione greca ad Epicuro. Non sempre si sa che Epicuro fu un atomista, avendo egli accolto la teoria di Democrito, anche se opportunamente corretta (chi ha fatto studi marxiani, saprà che la tesi di Marx verteva proprio sulla differenza dei materialismi di Democrito ed Epicuro).
Quel che a noi però qui interessa sottolineare è come il determinismo di Democrito, il suo meccanicismo necessario, ai limiti della fatalità, venga deviato da Epicuro proprio attraverso il concetto di parenclisis, tradotto qualche secolo dopo dal suo seguace Lucrezio con clinàmen: inclinazione, deviazione del corso necessario degli atomi. Giova a tal proposito richiamare il testo di Lucrezio, dove tale tesi viene esplicitata con grande chiarezza, generando per lo meno due differenze piuttosto importanti rispetto alla teoria atomistica di Democrito: a) il clinàmen consente la nascita delle cose; b) il clinàmen garantisce la libertà umana. Questi i passi tratti dal De rerum natura:

«Sullo stesso argomento desidero che tu sappia anche questo:
i corpi, quando cadono verticalmente trascinati nel vuoto
dal loro stesso peso, in un momento del tutto indefinito
e in un luogo incerto si sviano un poco dal percorso,
così poco che appena ne puoi dire mutato il cammino.
Se infatti non usassero deviare, precipiterebbero tutti in basso
attraverso il vuoto profondo simili a gocce d’acqua,
non si sarebbero prodotti gli scontri, non avrebbero luogo gli urti
fra i corpuscoli primordiali: in tal modo la natura non avrebbe generato mai nulla.
[…]
Non vedi dunque ora che, sebbene una forza esterna
spesso costringa a procedere molti uomini che riluttano
a essere precipitosamente trascinati, tuttavia c’è nel nostro petto
qualcosa che può ribellarsi e opporre resistenza? […]
Perciò si deve riconoscere che anche nelle particelle elementari
esiste un’altra causa di moto oltre agli urti e al peso,
donde proviene a noi codesta facoltà innata […]
Ma che la mente stessa in ogni
sua iniziativa non segua una necessità insita in lei,
né come domata sia costretta a sopportare e a patire,
deriva da quella esigua inclinazione [exiguum clinamen] dei corpi primordiali
che si produce in un punto dello spazio e in un momento indeterminati».

(libro II, 216-24, 277-80, 284.6, 289-93)

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

3 pensieri riguardo “Animalia V – Mechané, con una nota sul concetto di clinamen”

  1. ” … quella concezione tipica della scienza moderna che riduce la natura a “oggetto”, “elemento”, “meccanismo” – producendo conseguentemente una mentalità che la intende come cosa, risorsa, giacimento a disposizione degli umani.”

    Fu l’ideologia giudaico-cristiana a consegnare la Natura all’uomo perché potesse dominarla.

    La TECNICA (scienza) è l’ esecutrice materiale di quel precetto.

  2. vero! quello è senz’altro un retroterra di cui tener conto (sancito peraltro dalla nominazione originaria e dall’assegnazione divina in Genesi); ma finché vi sono elementi di sacralità e di mistero, la natura non può essere totalmente disponibile, così come devono prodursi le condizioni materiali affinché le società modifichino non solo la mentalità ma anche i loro assetti economici e produttivi.

  3. ” … devono prodursi le condizioni materiali affinché le società modifichino non solo la mentalità ma anche i loro assetti economici e produttivi.”

    Questo è un ottimo “auspicio”, condiviso da piccole minoranze consapevoli, che però non potrà mai produrre effetti tangibili sulle condizioni materiali dell’umanità a livello geopolitico.

    Mi viene in mente Platone che con i suoi tre viaggi a Siracusa sperava di dar vita ad una Res Publica virtuosa e progressista. Per un soffio non ci lasciò la pelle e nulla mutò di una virgola.

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