I solerti meccanici del terrore

Ho visto ieri sera La zona d’interesse. Ho poi letto qualche recensione. E a seguire qualcosa sul libro di Martin Amis e sulla vita di Rudolf Höss. Premetto che non so dire se il film mi sia piaciuto – anche perché la parola “piacere” ben poco si adatta a una certa tipologia di film, deputati più che altro a far pensare quando non a sconvolgere e rinfocolare dubbi.
E, a proposito di dubbi, che ci possa essere stata da parte del regista una qualche forma di manierismo, come qualcuno ha insinuato, è plausibile. Di sicuro si tratta di un’opera cinematografica molto costruita (ma quale opera non lo è?) – anche se a qualcuno può aver dato l’impressione che lo fosse troppo, e che la tecnica, sia visiva che sonora, strabordasse.
Mi limito a dire quel che è successo a me, durante e dopo la visione: in sala distacco razionale, quasi nessun tipo di emozione né di sdegno. Però stanotte ha lavorato l’inconscio, dato che ho sognato di trovarmi in un campo – ovvero, esattamente nel rimosso o nel “luogo cieco” del film – e che una guardia delle SS piuttosto sadica e solerte controllava minuziosamente i compiti a noi assegnati, e vigeva il terrore di sbagliare un solo gesto. Tutto era come sospeso in quella bolla di terrore.
Poi invece stamattina ci ho ragionato. E sono giunto ad una prima, provvisoria, conclusione: il film “funziona” proprio nel far vedere come “funzionavano” i campi e le menti di coloro che li gestivano. Ovvio il riferimento alla banalità impiegatizia di Eichmann notata da Hannah Arendt (proprio Eichmann si complimentò a più riprese con Höss per il “lavoro” svolto).
Jonathan Glazer, che firma anche la sceneggiatura, ci mostra dunque con un meccanismo filmico perfetto il “meccanismo” dei campi, la ragione strumentale che vi dominava e che non poteva scalfire minimamente le teste o le anime dei progettisti e degli esecutori, pena il crollo della macchina.
Rudolf Höss era poi uno dei più solerti di questi “meccanici” del terrore: sperimentò per primo e in larga scala l’uso del Zyklon B, progettò con cura l’architettura di Auschwitz, partecipò con grande professionalità alla soluzione finale degli ebrei ungheresi, e così via. “Lavoro” è la parola chiave qui: era un solerte lavoratore, totalmente immerso nella macchina dello sterminio. Preoccupato, tra l’altro, della propria carriera e di chi la avversava,
Questo generò probabilmente una forma di schizofrenia – evidente anche nella rappresentazione della felice vita familiare accanto al campo, sullo sfondo quotidiano dei camini fumanti e dei suoni della morte. Credo che questa radicale scissione sia molto ben rappresentata, ed era una delle chiavi che permetteva alla macchina di funzionare. Tra l’altro Höss non era nemmeno un fanatico o un sadico, come altri comandanti o gerarchi, stava solo compiendo il suo “lavoro” per la gloria del Reich e per lo “spazio vitale” della sua famiglia (il concetto di Lebensraum viene ad un certo punto evocato dalla moglie).
A proposito della moglie e dei figli occorre poi dire che si inseriscono nella tradizione del “negazionismo” (il negazionismo nasce già col nazismo): così come la loro mente era cieca di fronte all’orrore, sarebbe poi stata cieca dopo essere sopravvissuti all’impiccagione del padre (che scrive però una strana ed accorata lettera in punto di morte al figlio maggiore, dove lo invita proprio ad evitare questa cecità).
Ci sarebbe molto altro da dire su diverse scene (la fiaba notturna di Hansel e Gretel, le scale e la nausea di Höss, il salto temporale e le vetrine lucidate, la terrificante scena del fiume…) – ma mi limito ad una osservazione finale, che condivido con un recensore, e che risulta evidente anche da quel salto temporale, ma più in generale dalla scelta della messa in scena con molteplici camere ferme: la “zona d’interesse” è estesissima, ci siamo immersi dentro, e per lo più non riusciamo a vedere quel che accade al di là del nostro piccolo orto quotidiano. Gli automatismi facilitano questa cecità o visione distorta.
La soluzione però non sta in me (o solo in me), ma in noi – e comunque non è un film a potercela fornire. Se però disturba le nostre vite, ben venga.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

2 pensieri riguardo “I solerti meccanici del terrore”

  1. ciao MD

    bella analisi ; hai però tralasciato la figura della suocera che probabilmente inorridisce osservando dalla finestra della sua camera i camini fumanti a pieno ritmo testimoniando in tal modo la efficacissima produzione industriale di morte ; lascia poi un biglietto di cui non si conosce il contenuto ma lo si può dedurre dell’espressione del volto della figlia , Frau Höss; la mia riflessione più immediata a metà film fu : com’è possibile che una tale pellicola non risulti almeno un po’ noiosa in certi momenti ed invece ti tenga in costante tensione ?…

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