Filosofie della storia – 6. Il principio speranza di Bloch

1. Una filosofia della storia futura: quasi una contraddizione in termini.
La storia, il passato, la memoria, insieme alle condizioni materiali date, sono il complesso di elementi che pesa sulla vita degli umani, che sembra condizionarli, pre-determinarli, obbligarli su strade necessitate. Evocare quindi una filosofia della storia futura appare quantomai problematico, se si pensa alla forza di quei condizionamenti. Nello stesso tempo – basti pensare alla vita dei singoli – esiste pur sempre una controforza, una pulsione che spinge in direzione del nuovo, dell’inusitato, del non-ancora. Se c’è nell’individuo deve esserci anche in quell’individuo più in grande che è la collettività – fino probabilmente a spingersi all’intera umanità. Questa pulsione viene individuata dal filosofo tedesco Ernst Bloch nel principio speranza (Prinzip Hoffnung).
Principio, non solo affetto: Bloch pensa che la speranza non sia da restringere al campo sentimentale o soggettivo, ma che piuttosto costituisca una forza evolutiva presente a monte, ontologicamente, nell’essere, nella materia, nella vita stessa. Non solo: la speranza ha anche un significato cognitivo, è docta spes, una sorta di scienza utopica.

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Figure dell’ananke

È passato ormai un mese da che mio padre è morto e, oltre alla malinconica tonalità emotiva che non mi dà tregua, c’è anche un pensiero ossessivo che non vuol cessare: quello dell’ananke.
Ananke è figura terribile, e ben poco traducibile, della mentalità greca: nella lingua latina diventa la necessitas, ma il significato originario viene ad esempio reso da Empedocle come “antico decreto degli dèi” (fr. 115) che si fa “intollerabile necessità” (116). Sia Platone che Aristotele traducono l’ananke in linguaggio filosofico, ora in chiave logica ora in chiave metafisica e cosmologica, ma saranno gli stoici ad innervare più di chiunque altro il proprio sistema-mondo con quella potente fatalità (simmetrica ed opposta alla misera impotenza umana), che da Crisippo viene anche indicata come heimarmene, parola greca per indicare il fato o il destino.
Ananke è innanzitutto una figura violenta, inesorabile, che non dà tregua: la forza avversa (bia), l’impossibilità che qualcosa sia diversamente da come è (l’essere di Parmenide è avvolto da quelle stesse catene). Oltre che in forma logica (l’ananke, se si vuole, regge il principio aristotelico di non contraddizione, principio fermissimo, immobile, eterno, inscalfibile, irremovibile), ci si presenta anche nella modalità fisica e psicologica del tempo, come ciò che è irreversibile, che non può tornare indietro. Un consumarsi inesorabile delle cose.
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Il volto e il corpo dell’altro – 7. L’altro-bambino: il gioco (e la filosofia)

[solo dopo aver riflettuto sulla portata del gioco nella produzione storico-culturale, mi son reso conto che i miei esperimenti di filosofia con i bambini hanno essenzialmente una valenza ludica: i “filosofanti che bamboleggiano” irrisi dal Callicle platonico diventano così un ottimo simbolo di una serietà radicalmente altra che accomuna filosofi e bambini – strane creature ancora in grado di meravigliarsi del mondo]

La cultura “sub specie ludi” sembra essere la tesi essenziale di un libro importante e innovativo, quale è Homo ludens di Johan Huizinga (l’anno di pubblicazione è il 1938): ovvero, il gioco come elemento portante, necessario e sorgivo di ogni processo culturale. Senza l’elemento del gioco non avremmo avuto culture: le culture arcaiche e classiche hanno innanzitutto giocato con la cultura.
Si ha poi come l’impressione che Huizinga ritenga questa funzione del gioco come qualcosa di irreversibilmente tramontato: anche i secoli recenti (in particolare il ‘600 o il ‘700) più giocosi sono ormai alle nostre spalle, la serietà della vita ci ha preso alla gola, ora si lavora, si produce, si conduce una guerra totale e senza regole (non più cavallerescamente giocata), e anche gli elementi agonali o casuali del gioco (la sorte) sono diventati seri e seriali. Basti pensare al gioco d’azzardo, alla ludopatia (cosa di cui Huizinga non si occupa), allo sport – e, oggi, ai fenomeni dell’adultescenza, dell’infantilizzazione, ecc.

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Ogni mendicante è un principe di possibilità

Db651_Mendicante«Il marxismo ha reso all’uomo il massimo onore. La visione di Mosè e di Gesù e di Marx, la visione di una terra giusta, di un amore per il prossimo, di un’universalità, l’abolizione delle barriere fra paesi, classi, razze, l’abolizione degli odi tribali: questa visione era – siamo rimasti d’accordo su questo, vero? – un’immensa impazienza. Ma era anche qualcosa di più. Era una sopravvalutazione dell’uomo. Una sopravvalutazione forse fatale, forse insensata, eppure magnifica, giubilante, dell’uomo. Il più grande complimento che gli sia mai stato fatto. La Chiesa ha ostentato un disprezzo tremendo per l’uomo. L’uomo è una creatura caduta dalla grazia, condannata a trascorrere la sua sentenza a vita lavorando col sudore della fronte. Polvere alla polvere. Per il marxismo invece le sue capacità non conoscono confini, i suoi orizzonti, i balzi del suo spirito sono illimitati, o quasi. L’uomo mira alle stelle. Non è infangato dal peccato originale ma è lui stesso l’origine. […] Sì, abbiamo sbagliato. Sbagliato mostruosamente, come dici tu. Ma il grande errore, quello di sopravvalutare l’uomo, l’errore che ci ha traviato, è in assoluto la mossa più nobile dello spirito umano nella nostra tremenda storia. Per me, per tanti prima di me, questo errore ha compensato le nostre mancanze. Ha trasformato la barbona ubriaca che sta qui davanti a noi in una cosa senza limiti. Ogni mendicante è un principe di possibilità».

(G. Steiner, Il correttore; immagine: Carlo Ludovico Bompiani, Il mendicante)

Leibniziana 2 – Scagionare (nientemeno che) Dio

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Teodicea è parola coniata dall’inventiva filosofica di Leibniz – con la precisa intenzione di togliere le castagne dal fuoco niente meno che a Dio, visto che il Signore-dio-loro non pare essere molto in grado di giustificarsi nei confronti di quella cosa parecchio spiacevole che è il male (e che provoca dolore), una spina conficcata nella più-che-perfetta economia del creato. Come scrive giustamente Vittorio Mathieu: «una ricerca volta a scagionare Dio dall’accusa di aver creato il male nel mondo» (si veda la sua eccellente introduzione all’edizione Zanichelli dei Saggi di teodicea: io ne ho una copia del 1973, che ho tolto qualche mattina fa parecchio impolverata dalla libreria).
Il più ampio, e forse importante, saggio filosofico pubblicato da Leibniz su un argomento apparentemente minore, era in realtà un vero e proprio puntello maggiore del suo sistema, visto che il programma essenziale del filosofo tedesco è una integrale razionalizzazione del reale, comprese le parti tradizionalmente in ombra o più riottose – anche se l’occasione gli fu data dalla pubblicazione del Dizionario di Bayle, oltre che dalle sue assidue frequentazioni di corti e di salotti.
Spinoza aveva risolto la faccenda in maniera piuttosto tranchant: se tutte le cose sono modi di Dio (e co-incidono o co-insistono sul suo piano immanente), od anche, viceversa, se Dio si manifesta nella moltitudine ed entitudine, e se è l’assoluta e sostanziale necessità a regnare (nulla è contingente) – allora concetti come male e bene sono inconsistenti proiezioni di una mente ipertrofica e malata, che si crede un po’ troppo al centro del mondo. Quel che Spinoza concede è che rientrino semmai nella dinamica delle passioni, là dove bene è espansione e male è contrazione del desiderio e della vita stessa degli esseri – ciò che però non è un difetto, ma una necessità naturalmente determinata.
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Amor…

L'attesa_Klimt

Lasciare che sia la contingenza
di corpi e menti e spiriti che incocciano
a decidere lì per lì
– forse la cosa più bella che ci si possa attendere dalla vita
o quella più vitale che possa venire dalla bellezza
o che la vita possa aspettarsi da se stessa.
Non tanto l’esito dell’incontro
quanto l’incontro in sé, la sua pura idea
– la relazione in sé.
Non la prosa dell’accoppiamento
ma la poesia dell’attesa,
non l’atto che si consuma
ma la potenza che si strugge.
L’assenza, non la presenza.
L’amare, non l’essere amati
– quasi un amore senza s-oggetti.
L’estro dell’essere, prima che qualcosa sia.

È solo un bel pensiero

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A. è il figlio che non ho – ma che avrei voluto avere.
Non so perché. Mi sono incaponito a pensare così
e non c’è nulla che mi tolga questo pensiero
– o spina o fiore – dalla testa.
Un pensiero che si è insinuato lentamente
prima sottotraccia ora in tutta evidenza
ed è scritto qui sulla mia fronte
in lettere d’oro. Parole che solo io posso vedere.
Mentre non ne so decifrare il senso.
Non so andare oltre il loro luccichìo,
sì da cavarne le trame segrete ed imperscrutabili,
quelle che portano a me e a lui – separati.
A me e a lui – non padre non figlio.
A me e a lui – scissi.
Ma perché poi questo mio desiderio di paternità,
visto che ho estirpato scientemente ogni ansia biologica
ogni stupida brama di riproducibilità
di una stirpe che non voglio si riproduca
– che anzi desidero ardentemente si estingua?
Però se vedo lui si placa questo mio nichilismo.
Mi rassicura – non perché scriverà pagine divine
o perché volerà come Euforione nei cieli di Utopia
bruciandosi le ali, eccetera
(cose in cui non credo più da millenni).
E forse nemmeno perché mi piace il suo sorriso sornione
ricolmo di possibilità (e di buone sagge idee per il suo futuro incerto).
E, a ben vedere, nemmeno per quella sua acutissima
e un poco ombrosa intelligenza
(che forse riconoscerei
se solo scavassi appena nel ricordo dei miei diciassett’anni…).
A. è il figlio che non ho – ma che avrei voluto avere.
È solo un bel pensiero. Tutto qui.
Che non vuole essere indagato oltre.

L’insostenibile gravità dell’esistere

kierkegaard

Pochissimo s’è parlato in questo blog di Søren Kierkegaard. Solo fugaci citazioni, in 4 o 5 occasioni, nulla di più. Il 5 maggio scorso ricorreva tra l’altro, nel più assordante dei silenzi, il bicentenario della sua nascita.
Del resto il filosofo danese non è di sicuro nelle mie corde – ed anzi, ricordo che all’università, io e un mio compagno con il quale ho avuto il piacere di condividere anni di forsennata passione filosofica (e di grandi bevute), eravamo soliti sbeffeggiare il povero Søren, in particolare per quella sequela di titoli angosciosi e funesti – Timore e tremore, Briciole filosofiche, Il concetto dell’angoscia, La malattia mortale… – a nostro avviso ben poco filosofici, e comunque lontani dal nostro stile irruento e vitale (io poi ero all’epoca un temibile estremista hegeliano!).

[En passant, Briciole di filosofia fu, se non erro, il primo blog filosofico che incontrai sul web, subito dopo aver aperto La Botte. Quasi una nemesi].

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Tessiture epocali e capocchie di spillo

(si tratta di un post che riprende molte delle cose già dette e discusse sull’annosissima questione ontologica – dunque non è un numero 2, che segue all’amore spinozista, ma un numero ‘n’; apparirà pertanto un po’ involuto ed ellittico agli occhi di chi quelle discussioni e quelle riflessioni non ha seguito; e poi non ho voluto tirarla troppo per le lunghe; l’essere – non la mia capocchia di spillo – si scusa per l’eventuale disagio mentale)

Vorrei provare a ragionare sulla tessitura degli enti (cose, fatti, eventi) a partire dalla base ineffabile dell’essere: ciò che potremmo intendere come nuove relazioni e nuovi intrecci – trame impreviste ed imprevedibili nella loro totalità dalla mente temporale (e qui bisognerebbe riflettere sulla inaggirabile conformazione temporale della sfera umana, nonché su quello che Heidegger chiama Dasein, esserci – ma dopotutto su Heidegger e sulle sue gettatezze e deiezioni possiamo anche soprassedere).
Il non-essere è (e qui mi dovrei fermare, perché come fa il non-essere a essere qualcosa?) – dicevo, il non-essere è a ben vedere questo non-ancora emerso dal mondo relazionale, dagli incroci contingenti dei modi e delle forme dell’essere. Noi possiamo fingere che ci sia un punto di vista assoluto: chiamiamolo occhio di Dio (ne abbiamo evidentemente facoltà), un ente immaginario che sappia prevedere quelle trame (o che addirittura le abbia già tutte scritte), e che può anche prendere le sembianze dei tradizionali concetti di fato o destino, che poi in ambito logico denominiamo necessità. Laddove quella trama che sorge – l’incessante e multiforme tessitura dell’essere – proprio in quanto sorgente e fluente è dominata dal regno della possibilità.

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