Il silenzio di Ratzinger

Quando Benedetto XVI giunse al soglio pontificio, ricordo che una mia cara amica laicissima e illuminista lo soprannominò papa Natzinger. Non solo per le parole e il programma – peraltro ampiamente annunciato nei decenni di stretta collaborazione con Wojtyla, un papa nuovissimo per ragioni di “marketing” e quantomai reazionario per ideologia – ma anche per la gestualità e per quel sorriso forzato, un po’ pastore tedesco un po’ sepolcro imbiancato. Certo, un giudizio quantomai tranchant, ai limiti del lombrosiano, che oggi verrebbe guardato storto dal fiume di retorica corrente.
Ma la guerra del nuovo papa contro il relativismo, la sua visione tradizionalista ed assolutista, forse inevitabile a ridosso dell’epoca della “guerra di civiltà” e della discussione europea sulle “radici cristiane”, non poteva che infastidire qualunque progressista. Oggi che più di ieri il progressismo è un concetto abusato e problematico (ma del resto il Pasolini del discorso sul “sacro” e una schiera di filosofi novecenteschi ci avevano avvertiti), possiamo non tanto rivedere ma ricollocare quel giudizio nel nuovo contesto, etico, antropologico e geopolitico.
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Parlar di filosofia mangiucchiando ceci

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“Bisogna parlare di tali cose nella stagione d’inverno
vicino al fuoco, distesi sopra un molle divano
sazi di cibo, con un dolce vino da bere e mangiucchiando ceci”
– questa l’allettante immagine consegnataci da Senofane, il girovago cantore della Magna Grecia, in uno dei suoi frammenti, a proposito di una delle modalità possibili del filosofare.
Meglio, insomma, mettersi comodi e darsi tempo, visto che di cose molto importanti si tratta – nientemeno che di far fuori una mentalità millenaria e di fondarne una moderna (Carlo Sini ha detto a tal proposito che il moderno umanesimo trova la sua antica fondazione proprio in questo strano e poco considerato pensatore presocratico).
Ho riletto di recente i frammenti di Senofane, e me ne sono fatto un’immagine diversa che nel passato, un po’ più incerta e sfumata, ma molto più intrigante per la sfida che pare abbia lanciato: non v’è dubbio che il punto di partenza sia la critica all’antropomorfismo, una critica irridente e corrosiva, tesa a mettere alla berlina persino i grandi padri della grecità, Omero ed Esiodo, rei a suo dire di avere a loro volta amplificato quell’insopportabile propensione a rappresentare e mettere sulla scena gli dèi a nostra immagine e somiglianza – soprattutto esaltandone i vizi, anziché le virtù.
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Intransigenza

Premesso che
1) sono molto rispettoso delle credenze e delle fedi di chicchessia
2) chiedo reciprocamente a chicchessia di esserlo del mio ateismo (anzi non-teismo) e del mio materialismo radicale
3) sono incline al relativismo piuttosto che all’antirelativismo
– non transigo tuttavia (e dunque su questo non sono per nulla relativista) sul principio illuministico, laico e libertario dell’assoluta neutralità statuale e politica per quanto concerne le suddette fedi e credenze (e ciò vale anche per le ideologie e le filosofie, naturalmente). Che dunque chicchessia può liberamente professare (se lo crede), ma senza imporle alle leggi e ai fondamenti dello Stato, né tantomeno agli altri cittadini. Su questo non transigo e sono disposto a fare le barricate: lo Stato deve rimanere non religioso, non etico, non morale, non teista, non ideologico. Senz’arte né parte. Senz’amore né sapore (nun avi né amuri né sapuri, dice il detto siciliano).
Poiché la globalizzazione impone convivenze e mescolanze forzose tra diversi, in assenza e però in attesa di future, sperabili ed utopiche armonie – molto meglio una società di cittadini che siano “stranieri morali” ma che non si facciano la guerra.

Quinta parola: libertà

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[Sommario: Libertà e filosofia – L’uomo-misura di Protagora – Socrate eroe classico della libertà – Diogene hippy e cosmopolita – Il giardino di Epicuro – La catena degli stoici – Il libero arbitrio di Agostino – L’uomo proteiforme di Pico della Mirandola – Necessità e libertà in Spinoza – Stato e individuo: il liberalismo – Libertà, natura e spirito – L’oltreuomo nietzscheano – Sartre e l’esistenzialismo: libertà come possibilità – Libertà moltitudinaria – Responsabilità, alterità e libertà]

Il concetto di libertà è piuttosto sfuggente e, soprattutto, cangiante: epoche e culture diverse intendono questo termine in maniere inevitabilmente diverse. Ma senza voler entrare nella molteplicità dei significati e delle sfumature, evocare la libertà nel campo filosofico significa evocare nello stesso tempo una delle condizioni essenziali del pensiero: di libertà i filosofi hanno bisogno come l’aria, senza libertà di pensiero non ci può essere filosofia.
Ma di che cosa realmente parliamo quando parliamo di libertà? Da che cosa (o di che cosa) siamo (o dobbiamo) essere liberi? E poi: possiamo davvero esserlo, o si tratta di una pura illusione?
Ci faremo queste domande scorrendo velocemente il pensiero di alcuni filosofi o correnti filosofiche, dalla grecità all’epoca contemporanea.

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Relativistici, caotici (ma poco maoisti) smottamenti, nonché diffuse dislocazioni semantiche

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Matteo Salvini acclamato alla Duma della Federazione russa
Vladimir Luxuria a cena da B.
Grillo cacciato dai suoi giovani elettori genovesi
il PdRenzi con i padroni sognanti contro i lavoratori arrancanti
la Chiesa che cambia morale (e orientamento) sessuale
la Turchia – ovvero la Nato – che spara sui Curdi, gli stessi che a Kobane resistono all’avanzata dei “nemici dell’Occidente”
i virus che viaggiano alla supersonica velocità dei jet…

…come dire che il caos (e il caso) regnano sovrani sotto i cieli, ma non per questo, caro compagno Mao, la situazione è eccellente…

Liquida, anzi miasmica (con postilla sul papa e dichiarazione di voto)

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Alla fine di questo post (senza capo né coda, liquido esso stesso un po’ come la società e le categorie del sociologo Zygmunt Baumann), dichiarerò pure le mie intenzioni di voto al prossimo redde rationem del 24 febbraio – sempre che non si volatilizzino nel frattempo, confondendosi con i miasmi sociali, politici ed antropologici della nazione. Nazione incantata per una buona fetta, in queste incerte giornate di fine inverno, dal palco fiorito di una popolare manifestazione canora (una delle poche cose ancora solide, non affette da malefico relativismo). Insomma, sarà un post pseudodadaista.

Buttiamola subito in politica (anche se sarebbe meglio buttare la politica). Ma credo che in Italia non si possa più parlare di politica, quanto di cosche e consorterie che hanno messo le mani su ciò che è comune contendendoselo, e più spesso spartendoselo (non certo in misura eguale ed egualmente colpevole: troppo comodo berciare il ritornello da bar del “tanto sono tutti uguali”). Non è un’altra tangentopoli, quanto piuttosto il consolidamento di quel sistema e di quella crisi che non solo non ha trovato uno sbocco, ma si è fatta permanente. Tutte le uscite dalla politica (la cosiddetta antipolitica, peraltro politicissima ed ideologicissima) hanno paradossalmente consolidato il sistema: così è stato con il leghismo, poi con il berlusconismo, e c’è da temere che così avverrà anche per il grillismo.

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Potenza della filosofia

(Il buon vecchio Emilio Agazzi, un professore marxista che ebbi la fortuna di seguire per qualche anno all’Università Statale di Milano,  recitò una volta, durante una lezione, la filastrocca in voga ai suoi tempi di studente, e forse anche ai tempi di Aristotele: la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale).

Bisognerebbe preliminarmente intendersi sul concetto di potenza, piuttosto stratificato e ambiguo.
È potenza la passività di un ente o di una mente, nel farsi soggiogare da ciò che le è esterno.
È potenza questo esterno, somma di forze incontrollabili e sovrastanti – potenza della natura, si suol dire.
È potenza la dis-posizione dell’ente o della mente a mutare, a cambiare forma o contenuto. A diventare quell’altro-da-sé che è già in-sé. È potenza la possibilità – dynamis, divenire ciò che è possibile divenire.
Le facoltà e le virtù sono pura potentia – conatus esistenziale che si realizza in una data forma di vita.
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La natura? Non esiste!

“La natura a rigore non esiste, è solo un nostro concetto” – così ha esordito qualche sera fa Renato Pettoello, docente di storia della filosofia contemporanea alla Statale di Milano (che, en passant, era stato il mio relatore di tesi), ad una conferenza in provincia sul tema “Scienza, natura, uomo nel ‘900”. Non ho potuto che dargli ragione – visto che ritengo che non solo quello di natura, ma anche quelli di realtà e di verità, siano concetti piuttosto ambigui, per non parlare della tanto sbandierata natura umana. Si tratta evidentemente di concetti-chiave filati dalla nostra mente, prodotti e sedimentati dalle teorie che si sono susseguite lungo la storia della nostra specie, volte a descrivere il qualcosa che percepiamo al di fuori della nostra mente (ma già la definizione di questo esterno è problematico, anche perché presuppone un interno piuttosto artificioso) – con il risultato di avere una “realtà” quantomai stratificata e diveniente.
Natura può essere di volta in volta tutto ciò che esiste (la physis dei greci), l’ordine necessario delle cose, le leggi che reggono la realtà, la materia, ciò che non è artificiale o culturale, il poetico cip-cip dei variopinti uccelli (ma anche la necessaria strage eterotrofa), Dio (sive natura), il mondo atomico, il mondo primordiale, il mondo della vita, il livello istintuale, la base organica, persino l’ortopedia etico-religiosa… e insieme la dissoluzione di tutti questi presunti ordini. In sostanza: la vulgata e il senso comune che evocano la natura come qualcosa di ovvio e dato una volta per tutte, certa ed evidente lì davanti a noi (o in noi), non sanno nemmeno di che parlano e non immaginano nemmeno quanto in realtà sia complesso e lontano anni luce dall’immediatezza quel concetto.
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Seconda cronaca: bambini canonici alle prese con la grande domanda

In genere non preparo mai i miei incontri di filosofia con i bambini. O meglio, ho in mente qualche traccia, alcune parole-chiave, suggestioni di incontri precedenti. Ma nulla di più. Tuttavia, forse per una qualche maniera strutturale di funzionare della nostra ragione e del linguaggio, bene o male le discussioni si vanno organizzando secondo le canoniche tre aree della filosofia ellenistica: la logica, la fisica, l’etica. Si parte sempre dalla mente, dalle sue possibilità e capacità, dagli attrezzi che abbiamo a disposizione, dal “come funzioniamo”. Poi ci si guarda attorno (e anche un po’ dentro), per vedere com’è fatto il mondo, e di rimbalzo come siamo fatti noi, e che relazione c’è tra questa nostra costituzione e la costituzione del mondo, l’interno e l’esterno, e quale arché, legge o principio regga le sorti di tutto quanto. Ma poi si va sempre a finir lì: la morte, il senso della vita, il dolore, la felicità, io e gli altri – l’etica a tutto campo.

I bambini, da questo punto di vista, intuiscono già quali sottili differenze attraversino i piani labirintici del domandare: tra un chi (o che cosa) ha fatto il mondo, un come è stato fatto e un perché, sanno raccapezzarsi piuttosto egregiamente. E mentre per i primi due livelli sanno esserci le comode teorie scientifiche (o eventualmente religiose) a dar risposte a catinelle, per l’ultimo capiscono al volo che le cose si fanno un po’ più complicate.

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Emergenza della verità

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La verità, si sa, è relativa. E’ una faccenda ottica e sinottica. Di luce e di ombre. Di dialettica tra fede e certezza. Di processi e di divenire. Ed è anche una questione di emergenza. La verità emerge, si staglia su altro, ma subito dopo viene sommersa. La verità, in ultima analisi, è la relazione tra l’emersione e la sommersione.
Strana parola – non verità, ma emergenza. Sotto certi aspetti, emergenza è riconducibile ad una precisa (e relativissima) scelta: far emergere ciò che di per sé non emerge perché parte di una costellazione fattuale, di una interconnessione. L’emergenza provoca quindi uno squilibrio interpretativo, un metter sopra qualcosa che sta sotto e viceversa. Una questione di piani. Emergenza è in qualche maniera un metter sottosopra le cose, un farle divergere dal loro contesto, e dotarle di significati nuovi e diversi. Far emergere finisce così per far divergere le cose da se stesse.
Naturalmente si può interpretare questo meccanismo in altro modo: talvolta l’emersione può voler dire il far venir fuori qualcosa che era nascosto, che non era in luce, che prima risultava invisibile. Secondo questa prospettiva l’intera filosofia (per lo meno quella che dà un significato cogente al concetto di verità) è un’attività emergenziale.
Ma tralasciamo le astruserie e torniamo al piano fattuale. Chissà perché in Italia – paese per antonomasia delle emergenze (delle situazioni pubbliche pericolose) – l’emergenza ha sempre un’accezione divergente delle cose.

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