Ciò che ci rende cose

Questa prima parte del celebre saggio di Anders sulla sulbalternità umana al mondo delle macchine, venne pubblicata nel 1956, ovvero ormai quasi 70 anni fa.
Il primo capitolo della seconda parte si intitola “Il mondo fornito a domicilio”. L’indice ci fornisce già le tesi (direi le predizioni del tutto realizzate). Si prendano, ad esempio, i paragrafi dal 2 al 6:

2. Ogni consumatore è un lavoratore a domicilio non stipendiato che coopera alla produzione dell’uomo di massa.
3. La radio e lo schermo televisivo diventano il desco familiare di segno negativo; la famiglia diventa un pubblico in miniatura.
4. Gli apparecchi, togliendoci la parola, ci trasformano in minorennni e subordinati.
5. Gli avvenimenti vengono a noi, non siamo noi ad andare verso di loro.
6. Dato che il mondo ci è fornito in casa, non ne andiamo alla scoperta; rimaniamo privi di esperienza.

Il problema di fondo viene indicato nella dedica in esergo al padre William Stern (il vero cognome di Anders), autore di Persona e cosa del 1906; scrive Anders: «La sua bontà innata e l’ottimismo dell’epoca a cui apparteneva gli impedirono per molti anni di riconoscere che ciò che rende “cosa” la “persona” non è il trattamento scientifico, ma l’effettivo trattamento dell’uomo da parte dell’uomo».
È da ciò che nascono queste tristi pagine sulla sua devastazione…

Alienazione strategica

Quel che dovrebbe turbare di più quando si parla di guerra – di questa guerra in particolare, ma vale per ogni guerra – è la presa di distanza, l’astrazione, la disumanizzazione con cui per lo più se ne parla. Sia la visione geopolitica, più o meno cinica o brutale, sia quella militare, propagandistica, ideologica – tutto concorre a rappresentare il fenomeno guerra come un dispositivo, una megamacchina, di cui gli umani – i soldati, gli arruolati a forza, spesso i civili – sono solo dei “pezzi” (Stücken, come i nazisti nominavano gli ebrei internati nei campi).
Era stato Hegel ad evocare ed elogiare il “progresso” della guerra moderna, tramite la polvere da sparo, verso una forma di astrazione che nascondeva il volto e il corpo del nemico: la guerra non è più (ammesso lo sia stata in qualche epoca) una faccenda eroica del “corpo a corpo”, ma diventa un enorme meccanismo di cui i combattenti (e nel Novecento i civili come “mobilitati totali”) sono solo ingranaggi.

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Il silenzio di Ratzinger

Quando Benedetto XVI giunse al soglio pontificio, ricordo che una mia cara amica laicissima e illuminista lo soprannominò papa Natzinger. Non solo per le parole e il programma – peraltro ampiamente annunciato nei decenni di stretta collaborazione con Wojtyla, un papa nuovissimo per ragioni di “marketing” e quantomai reazionario per ideologia – ma anche per la gestualità e per quel sorriso forzato, un po’ pastore tedesco un po’ sepolcro imbiancato. Certo, un giudizio quantomai tranchant, ai limiti del lombrosiano, che oggi verrebbe guardato storto dal fiume di retorica corrente.
Ma la guerra del nuovo papa contro il relativismo, la sua visione tradizionalista ed assolutista, forse inevitabile a ridosso dell’epoca della “guerra di civiltà” e della discussione europea sulle “radici cristiane”, non poteva che infastidire qualunque progressista. Oggi che più di ieri il progressismo è un concetto abusato e problematico (ma del resto il Pasolini del discorso sul “sacro” e una schiera di filosofi novecenteschi ci avevano avvertiti), possiamo non tanto rivedere ma ricollocare quel giudizio nel nuovo contesto, etico, antropologico e geopolitico.
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Breve critica della società pandemica

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno
che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando
insieme. Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno
e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e
apprendimento continui: cercare e saper riconoscere
chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.
(I. Calvino, Le città invisibili)

[Potrà sembrare estremista quel che scrivo qui – e l’estremismo, a parere di Lenin, è una malattia infantile (non solo del comunismo, direi). A parte che estremista sarebbe semmai praticare le parole che scrivo (di scritture radicali e sovversive son pieni i cieli e la terra, e spesso non sappiamo che farcene) – in realtà l’estremista non sono io, ma la realtà nella quale siamo immersi – o, ad essere più precisi, dalla quale siamo sommersi: una realtà estrema e stremata dalla follia, che corre all’impazzata verso l’abisso. Un vero e proprio iperoggetto, invisibile, viscoso, inafferrabile. Un inferno invisibile].

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#200Marx – Il lavoro alienato

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9. L’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale, realizzandosi così l’insulsa favola di Menenio Agrippa che rappresenta un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo.
(Il Capitale)

10. Lo Stato moderno, il dominio della borghesia, è fondato sulla libertà del lavoro. Il lavoro è libero in tutti i paesi civili; non si tratta di liberare il lavoro, ma di abolirlo
(L’ideologia tedesca)

11. Certamente il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce lo spogliamento dell’operaio. Produce palazzi, ma caverne per l’operaio. Produce bellezza, ma deformità per l’operaio. Esso sostituisce il lavoro con le macchine, ma respinge una parte dei lavoratori ad un lavoro barbarico, e riduce a macchine l’altra parte. Produce spiritualità, e produce la imbecillità, il cretinismo dell’operaio.
(Manoscritti economico-filosofici)

12. Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere. La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane.
(Manoscritti economico-filosofici)

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«La proprietà privata ci ha resi così ottusi e unilaterali…
Al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è quindi subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi… il senso dell’avere.
Ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio…
Il denaro trasforma le forze essenziali reali, sia umane che naturali, in penose fantasie.
Il denaro è il potere alienato dell’umanità».

L’editore Gallucci ha osato far uscire questo magnifico albo, illustrato dall’artista spagnolo Maguma, con le parole scritte da Marx nei Manoscritti economico-filosofici ormai quasi due secoli fa. Parole che rimbalzano sul presente, più vere oggi di ieri.

L’utopia visionaria degli eptopodi

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Come già mi era successo con Interstellar di Nolan, anche con Arrival di Villeneuve ho provato la sensazione fortissima di venire integralmente assorbito in una visione altra (aliena in senso lato) del mondo, e di trovarmi poi a fluttuare a lungo con la mente (e persino con il corpo) entro questa dimensione sospesa e rarefatta, come se il pianeta mi stesse stretto e fosse ormai così asfittico da dovermi apprestare a lasciarlo. Per poter proseguire così il viaggio della visione in un più articolato viaggio cosmico ed esistenziale.
La potenza visionaria di questo genere di film e di storie – che sfidano addirittura i massimi sistemi fisici, filosofici, etici, estetici e semiotici, e che alzano sempre più il livello insieme emotivo ed intellettuale – non si limita più a scaraventarci addosso domande da far tremare i polsi (che cos’è il tempo? che cos’è l’alterità? che cos’è umano? siamo liberi o predeterminati? siamo tutt’uno col cosmo? esistono limiti nella nostra capacità percettiva? e via ontologizzando), ma va oltre: ci scava la terra sotto i piedi, ci pone in una situazione straniante-perturbante, perché non sono più la mente o la coscienza ad esserne avvinte o affascinate, ma la radice stessa della nostra esistenza, quel tutt’uno passionale e razionale (ed altro ancora) che noi siamo, o che crediamo di essere, o che ci raccontiamo di essere.
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Umiliati e offesi

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Non son solito attribuire dignità al lavoro in sé – per lo meno non al lavoro alienato della società del capitale. Rimango affezionato all’idea marxiana (e forse un poco romantica) che distingue tra Arbeit e Tätigkeit, lavoro come costrizione contro libera attività. Che poi questa non si sia mai realizzata in passato, men che meno oggi e non si realizzerà mai in futuro, fa un po’ parte di quella dimensione utopico-filosofica che faceva dire al Rousseau sognatore, a proposito del suo genuino uomo naturale, che poco importava che non fosse mai esistito, anzi meglio ancora.
Fatta questa premessa vagamente teoretica, mentre vedevo l’ultimo film di Ken Loach ho pensato che non soltanto il sol dell’avvenire atteso dai lavoratori ha cessato di splendere da molto tempo, ma che non se ne vede all’orizzonte il benché minimo segno di risorgenza. Nemmeno un debole raggio. Nulla, o quasi. Daniel Blake – il protagonista di una fin troppo consueta storia di burocrazia nell’epoca della flessibilità alias precarietà – s’ammala, non può lavorare e rischia di perdere tutto – anche la dignità residua: quel pronome personale del titolo e quel nome cui tutta la sua vita finisce per ridursi. Ecco, probabilmente il fatto che si sia riposta nel “lavoro” (qualsiasi lavoro, anche il lavoro più noioso, ripetitivo, umiliante – per non dire “di merda”) una residua dignità annullata la quale si cessa di esistere (a meno che non si abbiano soldi, potere e visibilità), qualifica l’attuale compagine sociale come un’oscenità antropologica. (Ad ogni modo a Daniel Blake, alienato o no, dignitoso o no, il suo lavoro di falegname piace, e non vede l’ora di tornare a farlo, pur con il cuore non del tutto rimarginato).
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Terzo fuoco: homo homini deus

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Il nostro terzo incontro avrà come oggetto di discussione la religione. Naturalmente è un argomento vastissimo, noi ci limiteremo a domandarci se ha ragione Marx nel definirla oppio del popolo, e quale possa essere il senso di questa definizione in un periodo così tormentato (anche in termini religiosi) come il nostro. A guidarci sarà L’essenza del cristianesimo, un saggio del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, pubblicato nel 1841 e cruciale (anche per Marx) sul significato della religione nella vita umana – con un approccio che antropologizza la teologia e umanizza il divino, invertendo così i termini del rapporto che lega l’uomo a Dio (il predicato e il soggetto), svelando il “trucco religioso” e smascherandone il vero senso: non Dio crea l’uomo, quanto piuttosto è l’uomo a creare Dio, riponendo in esso le cose essenziali, i tesori della propria umanità. Se tradizionalmente si pensava che il soggetto-creatore fosse Dio, e l’uomo il predicato che ne deriva, occorre invece rovesciare questo rapporto, e rimettere le cose al loro posto.

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Epepe – o Bebe o Edede o Tjetjetje o Cece o…?

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Epepe – dell’ungherese Ferenc Karinthy – è forse il più geniale romanzo sullo straniamento che io abbia mai letto (un altro, bellissimo, è senza dubbio Nulla, solo la notte di John Williams).
Dopo averlo finito – anzi direi febbrilmente consumato – ci rendiamo conto di conoscere a malapena il nome del suo protagonista, Budai, ma nessun nome delle cose, dei luoghi e delle persone che affollano il mondo (praticamente alieno) nel quale egli viene erroneamente catapultato (a causa di un fatale disguido aereo).
Sarebbe dovuto andare ad Helsinki (è l’unica coordinata geografica che ci è nota al principio della storia), ed invece finisce in questa metropoli allucinante dove affonda come nelle sabbie mobili (la metafora è dello stesso Karinthy).
Due i motivi forti del romanzo. Uno è senz’altro quello linguistico-comunicativo: il protagonista è un linguista che avrebbe dovuto partecipare ad un convegno internazionale e che invece dovrà paradossalmente misurarsi con una lingua della quale non riesce a scalfire nemmeno la superficie (soprattutto della lingua parlata, che pare perennemente cangiante e foneticamente incomprensibile; mentre la scrittura risulta ostica ed impenetrabile, con quei suoi segni un po’ runici un po’ cuneiformi, in realtà del tutto incatalogabili). Ogni volta che Budai tenta di scavalcarlo o di penetrarlo, il muro di suoni e di segni appare insormontabile e tetragono, e lo respinge con violenza.
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