Avevamo parlato due anni fa dell’arte. Ora è il turno della bellezza, cui inevitabilmente questa rinvia. Ma se l’arte è il fronte oggettivo, visibile, espressivo del mondo estetico, la bellezza ne è lo sfuggente lato soggettivo, legato al gusto e al piacere individuali.
Arte (e natura) si stagliano – sterminati e muti – di fronte a noi, laddove è il sentimento della bellezza in noi a scuoterci. Ma donde viene questo sentimento? Come si è formato? Cos’è?
È questa la domanda – che possiamo volgere anche nella forma classica, e un po’ abusata, del bello in sé o bello per noi: è bello perché ci piace o è bello perché lo è in se stesso?
Già la formulazione di questa domanda richiede un chiarimento terminologico tra piacere e bellezza, ma ci torneremo tra poco.
Cominciamo col dire che i filosofi hanno risposto in modi diversi al quesito, e che solo da un paio di secoli e mezzo è nata quella disciplina filosofica denominata Estetica, che si occupa di bellezza, di gusto, di arte in maniera sistematica, cercando di fare ordine e chiarezza in questo campo, sia a livello percettivo che formale.
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Ottavo fuoco: la bellezza
giovedì 19 maggio 2016Settima parola: bene
lunedì 27 aprile 2015(Vista la vignetta dei Peanuts qui sopra, mi toccherà forse parlar male del bene…)
Nel termine latino bonum (aggettivo bonus) ci sono tutte le caratteristiche con le quali viene comunemente utilizzato il concetto di bene: dal summum bonum, all’essere retti e onesti, alla felicità, utilità, prosperità, ecc.
Senonché dire:
–il Bene
-fare il bene (o meglio, buone azioni)
-io sto bene
sono espressioni molto differenti, che si riferiscono ad accezioni parecchio diverse della medesima parola.
Che alludono ad una diversa caratterizzazione del bene a seconda che esso venga inteso in termini oggettivi (il bene come idea-valore in sé) o in termini soggettivi, e dunque relativi a situazioni sociali e storiche determinate, o più semplicemente concernenti le relazioni intersoggettive (utilità, felicità sociale e individuale, ecc.).
Sopra di me, in me
lunedì 13 aprile 2015Non riesco a capire come mai non ho ancora trascritto su questo blog una delle pagine più belle e commoventi che mai filosofo abbia scritto. Lo faccio ora, anche perché trascriverne le parole, mentre le leggo a voce alta e le faccio risuonare nello spazio (attorno a me) e nella mente (in me), significa rimeditarle ancora e ancora e ancora…
«Due cose colmano l’animo di ammirazione e riverenza sempre nuova e crescente, quanto più spesso e assiduamente sono oggetto di riflessione: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Entrambi non posso cercarli e meramente congetturarli come se fossero avvolti dalle tenebre oppure come se oltrepassassero il mio orizzonte: li vedo davanti a me, e li congiungo immediatamente con la consapevolezza della mia esistenza. Il primo inizia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed amplia la connessione, in cui io mi trovo, con mondi su mondi e sistemi di sistemi, incommensurabilmente, per giunta nei tempi illimitati dei loro movimenti periodici, delle loro origini e della loro durata. La seconda inizia dal mio Sé invisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può avvertire, e con il quale (come peraltro insieme anche con tutti quei mondi visibili, con tale tramite) io riconosco di essere congiunto in una maniera non solo accidentale (come nel primo caso), bensì universale e necessaria. Il primo spettacolo, di una quantità innumerevole di mondi, annulla, per così dire, l’importanza di me in quanto creatura animale che deve restituire la materia da cui si originò al pianeta (un mero punto nell’universo), dopo essere stata provvista di forza vitale per breve tempo (non si sa come). Invece la seconda veduta eleva infinitamente il valore di me quale intelligenza in virtù della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dall’animalità e persino dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può desumere dal fatto che la mia esistenza sia determinata in senso finale da questa legge, e che tale destinazione finale non sia limitata a condizioni e confini di questa vita, ma vada invece all’infinito».
Sesta parola: reale
lunedì 16 marzo 20151. Realitas è termine coniato nel Medioevo e costruito sul latino res, cosa. Lo si rinviene per la prima volta nel filosofo Duns Scoto che lo utilizza all’interno di una discussione molto tecnica a proposito del problema degli universali: l’idea astratta è reale (esiste da qualche parte) o è soltanto il nome (che dunque sta solo nella nostra testa) volto ad indicare una cosa concreta?
La domanda – che cosa è reale? – potrebbe sembrare oziosa, ma vedremo che non lo è affatto.
Siamo portati a pensare che tutti sappiano bene che cosa sia reale e che cosa no: le cose che vedo e che tocco, il cibo che ingurgito, le persone e gli animali domestici con cui vivo, il lavoro che faccio – tutto questo è senz’altro reale. Ma un nome, un’idea, un sogno, un software, un simbolo, un’immagine, un ippogrifo o un drago – sono reali o no?
2. Siamo soliti contrapporre ciò che è reale ad entità inesistenti, fittizie od immaginarie, ai sogni, a ciò che è soltanto prodotto dalla nostra mente – ovvero al lato soggettivo della conoscenza (anche se tutti questi termini richiamano, per opposizione, la propria esterna ed oggettiva alterità).
C’è un oggetto proprio perché c’è un soggetto: un lato viene dato insieme all’altro, io (soggetto) conosco o percepisco qualcosa (oggetto), e questo oggetto è sempre correlato con il mio modo di intenderlo.
Quinta parola: libertà
lunedì 16 febbraio 2015[Sommario: Libertà e filosofia – L’uomo-misura di Protagora – Socrate eroe classico della libertà – Diogene hippy e cosmopolita – Il giardino di Epicuro – La catena degli stoici – Il libero arbitrio di Agostino – L’uomo proteiforme di Pico della Mirandola – Necessità e libertà in Spinoza – Stato e individuo: il liberalismo – Libertà, natura e spirito – L’oltreuomo nietzscheano – Sartre e l’esistenzialismo: libertà come possibilità – Libertà moltitudinaria – Responsabilità, alterità e libertà]
Il concetto di libertà è piuttosto sfuggente e, soprattutto, cangiante: epoche e culture diverse intendono questo termine in maniere inevitabilmente diverse. Ma senza voler entrare nella molteplicità dei significati e delle sfumature, evocare la libertà nel campo filosofico significa evocare nello stesso tempo una delle condizioni essenziali del pensiero: di libertà i filosofi hanno bisogno come l’aria, senza libertà di pensiero non ci può essere filosofia.
Ma di che cosa realmente parliamo quando parliamo di libertà? Da che cosa (o di che cosa) siamo (o dobbiamo) essere liberi? E poi: possiamo davvero esserlo, o si tratta di una pura illusione?
Ci faremo queste domande scorrendo velocemente il pensiero di alcuni filosofi o correnti filosofiche, dalla grecità all’epoca contemporanea.
(In)utilità della filosofia
mercoledì 5 giugno 2013[Riporto la traccia del mio intervento all’ultimo incontro del Gruppo di discussione filosofica, presso la biblioteca di Rescaldina. I Lunedì filosofici riprenderanno in autunno]
“La filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”.
“La nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”.
Due frasi – una dal sapore popolaresco e canzonatorio, l’altra corrucciata dalla serietà hegeliana – che giungono ad una medesima conclusione: la filosofia come qualcosa di inutile, cioè privo di uno scopo determinato (non ha importanza qui il contenuto dello scopo; ciò che importa è che vi sia una finalizzazione dell’attività: faccio questo per ottenere quest’altro, purché mi sia utile, cioè vantaggioso, che mi apporti dei benefici – anche se poi esistono scopi reconditi, eterogenesi dei fini, beni che si rivelano mali, insomma una casistica esageratamente varia).
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Cattivo infinito
venerdì 1 giugno 20121. Al pensiero greco, in generale, ripugna il concetto di infinito. L’idea che qualcosa si reiteri o si espanda indefinitamente, che non abbia limiti o confini e che sia smisurato, fa a pugni con la ragione filosofica, con il tentativo cioè di imbrigliare l’essere e di comprenderlo. E proprio l’essere, che potrebbe intendersi kat’exochèn come infinito – non essendoci nulla di pensabile o di tangibile oltre ad esso – viene invece de-finito da Parmenide attraverso l’immagine di “una sfera perfettamente rotonda”: l’essere racchiude in sé tutte le cose, le circoscrive, non le rinvia al di là di sé, in una zona del tutto indeterminata.
(Rilevo en passant come tale discorso richiami, almeno in parte, una differenza concettuale che l’attuale astrofisica opera nei confronti dell’universo: noi non sappiamo ancora se esso sia infinito, ma sappiamo per certo che è illimitato, un po’ come la superficie di una sfera, percepita da chi la dovesse percorrere come uno spazio indeterminato e senza confini).
Già il nome greco di infinito – che ha però un’accezione profondamente diversa dal concetto corrente, soprattutto matematico, oltre che da quello medioevale e cristiano – ha una connotazione essenzialmente negativa: l’àpeiron è ciò che non ha termine, nel senso però di incompiuto, dunque di imperfetto. Sono inoltre propenso a sovrapporre questa caratterizzazione dell’infinito con quella dell’irrazionale: lo smisurato è anche ciò che non può essere determinato/pensato, ciò che non ha forma e che dunque sconfina nell’insensato.
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Appeso ai baffoni di Nietzsche
lunedì 14 maggio 2012Oscilla talvolta il pensiero. Sì che mi vien da essere idealista con gli empiristi, comune con i costruttivisti. Fattuale con gli ermeneuti, mentale coi pragmatici.
Scettico con gli assolutisti, ontologico con gli scettici. Nominalista con i realisti, dogmatico con i cacadubbi.
Cammino sbattendomene come Pirrone sul ciglio dei precipizi, e sbeffeggio con Sesto Empirico i sapientoni che hanno in tasca la verità. Attendo al pozzo Talete che guarda in su, ma dal cielo scruto Anassimandro con segreta ammirazione.
Parmenideo con gli eraclitei, ed anche parricida.
Cristiano no, quello mai. Però, ogni tanto, m’assale l’angoscia kierkegaardiana, e temo e tremo, finché con piroetta dialettica mi riposiziono sulle hegeliane e roboanti figure dello spirito.
M’incazzo se passo da Treviri e poi vado a pascolare nell’heideggeriana foresta nera. Ma fuggo subito, perché c’è puzza di sterco nazista, e poi: perché mai gettar via l’esistenza?
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