Animalia II (con una postilla sul nome)

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica tenutosi l’11 dicembre 2023)

[Sommario: Lògos e animali – Antropologi filosofi: Gehlen e Plessner. Carenza e posizionalità eccentrica – L’animale che dunque sono: Derrida – Il cogito cartesiano e il corpo-macchina – L’io kantiano e la ragion pratica criminale – Levinas e Lacan, en passant – Heidegger: umanismo biologico, troppo biologico – Mondo/ambiente – La solitudine umana – Postilla sul nome]

Ciò che caratterizza fin dall’antichità la riflessione filosofica sulla questione del rapporto umano-animale, è il paradigma della mancanza – che è poi l’elemento essenziale del punto di vista antropocentrico: l’umano che osserva il non umano lo trova mancante di ciò che caratterizza la propria umanità, innanzitutto del linguaggio e del pensiero.
La discussione sul lògos, facoltà di cui l’animale sarebbe o meno mancante, data fin dal IV secolo a.C., originato dalle scuole filosofiche più antiche (in particolare il Liceo di Aristotele) e portato avanti soprattutto dallo stoicismo. Le questioni più rilevanti sono due: innanzitutto se nel rapporto umano-animale si possa parlare di una continuità o non invece di una frattura radicale (con le categorie di quantità o di qualità a caratterizzare il passaggio: la differenza sarebbe solo questione di gradi nel primo caso, di essenza nel secondo); data poi la natura duplice del lògos (un lògos interiore identificato col pensiero ed uno esteriore, identificato con la sua espressione linguistica), il problema riguarda l’attribuzione o meno di queste facoltà all’animale, tenuto conto che molte specie sono dotate di codici comunicativi, capacità vocali, sonore, ecc. La cosa interessante è che questo dibattito originario istituisce i calchi e i luoghi comuni tipici di tutta la riflessione seguente, potremmo dire fino ad oggi.

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Persone, animali e cose

Nel seminario L’animale che dunque sono, Jacques Derrida ci fa notare come l’incipit dell’Antropologia dal punto di vista pragmatico di Kant sia di una violenza inaudita:

«[Della coscienza di se stessi]. Il fatto di avere fra le proprie rappresentazioni anche quella dell’Io eleva l’essere umano infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. È questo che ne fa una persona e, in virtù dell’unità della coscienza in tutte le alterazioni che possono toccarlo, una medesima e sola persona, cioè un essere del tutto differente per rango e dignità dalle cose [Sachen], quali sono gli animali privi di ragione, di cui si può disporre a piacimento».

Adorno rincara la dose, visto che accusa Kant di sadismo e arriva a dichiarare senza peli sulla lingua che “gli animali sono gli ebrei degli idealisti” e che occorre piuttosto parlare di una “ragion pratica criminale”.

Certo occorre storicizzare, ma quel che alla fine del ‘700 appare come un grande progresso filosofico e ideale – ogni essere umano, in quanto dotato di ragione è altresì dotato di eguale dignità [Würde] – ci si presenta oggi (o ci si dovrebbe presentare) come un atto di arroganza e di suprematismo intollerabile. Oltretutto, due secoli dopo quell’affermazione illuministica, scopriamo come la Würde ceda facilmente al suo preteso universalismo: è sufficiente animalizzare l’altro, che questi precipita “infinitamente al di sotto” e diventa cancellabile dalla faccia della terra.

Ora, poiché non è possibile (o appare molto complicato) arretrare dalla visione idealista dell’Io-sono-dominatore-in-quanto-uomo, sarebbe interessante capire come volgere quella distruttiva eccedenza di potere in una teoria e in una prassi che tolga gli animali e tutti i viventi – ma spesso anche gruppi di umani – da quell’infinito sprofondamento ontologico e deficit di dignità.

Filosofie della storia – 4. Da Rousseau a Marx

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 13.02.2023]

È a partire dal ‘700, il secolo dei Lumi, che in Europa si viene formando una coscienza storica (e filosofica) che mette insieme quei salti temporali e spaziali che avevano preparato l’epoca moderna: l’idea, cioè, di un tempo lineare e progressivo e di uno spazio geografico globale, insieme al problema crescente della relazione tra le diversità culturali ed antropologiche, trovano una prima grande sistemazione concettuale nei filosofi a cavallo tra XVIII e XIX secolo, in un arco che va da Rousseau a Marx. Già Vico, poco prima, aveva chiamato non a caso “scienza nuova” la storia – l’unica scienza rigorosa possibile: se è vero che verum e factum corrispondono, e che la natura è fatta da Dio e solo Dio può conoscerne le leggi interne, allora ciò deve valere per la storia in relazione agli uomini, che proprio perché la fanno possono conoscerla dall’interno. Manca ancora un passo, che verrà fatto solo nel secolo successivo: poiché gli uomini fanno la storia, possono eventualmente anche disfarla e deviarne il corso.
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Il re nudo: una nota a proposito dell’invisibilità

Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,
Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
[J. Saramago]

Se è vero, come argomentato da Sergio Givone, che esiste una metafisica della peste, cioè il manifestarsi nel corso delle epidemie di qualcosa che eccede la mera fisicità biologica del male, e che addirittura evoca la domanda sul senso dell’essere (o sulla sua insensatezza) – allora non dovrebbe apparirci strano il paradosso che si genera a proposito dell’invisibilità: un morbo invisibile che rende visibile l’invisibile, ciò che per lo più non si vede – o perché è l’orizzonte (la struttura sottile) nel quale ci troviamo a vivere, o per una nostra pregressa e consolidata cecità o – più radicalmente – perché ha a che fare con il sottosuolo mistico e inafferrabile delle cose (quel che un tempo si chiamava verità).
Avevo un po’ fumosamente attribuito alla figura dello straniamento – la prima tra le parole del contagio ad essermi venuta in mente – la situazione ai limiti dell’assurdo che si va producendo nel corso di una pandemia: il mondo di prima viene sospeso e messo tra parentesi e nel corso di questa sorta di epoché fenomenologica, qualcosa di apparentemente nuovo, inedito, strano – perturbante – ci si mostra all’improvviso. Molti, anche sui social, hanno ad esempio parlato di ritorno all’essenziale o di uscita dal superfluo; lo hanno fatto magari solo in modo superficiale o sull’onda di facili slogan, ma è il caso di andare a vedere cosa sta dietro a queste reazioni, emotive prima ancora che razionali. Credo che proprio la dialettica tra visibile e invisibile cui alludevo sopra, renda più chiare queste sensazioni di straniamento o cortocircuiti della cosiddetta normalità.
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Deus absconditus

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Qualche sera fa ho aperto una conferenza scientifica facente parte di un ciclo che ha l’intento di illustrare in che modo è cambiato in Occidente il modo di guardare il cielo. La scommessa è di integrare diversi punti di vista – filosofico, antropologico, fisico-matematico, estetico – mostrando come si è andata modificando la percezione di sé e del proprio posto nel cosmo da parte dell’essere umano. La seconda puntata era dedicata all’epoca moderna, da Copernico a Newton. Ho aperto inevitabilmente con la data simbolo del 1543 – anno di pubblicazione del De revolutionibis orbium coelestium – e con l’impatto che la “rivoluzione copernicana” ha avuto sui pensatori e gli scienziati dei decenni e secoli successivi.
Tre in particolare le parole-chiave di questa trasformazione (e radicale rotazione del punto di vista):
1) Legge. Telesio scrive nello stesso secolo di Copernico il De rerum natura iuxta propria principia, sostenendo che la natura deve essere conosciuta attraverso se stessa, i principi interni e propri che la ordinano – e non con categorie a lei estranee (magiche, mitiche, divine, extranaturali). Ma tale legge non può più avere un ordine qualitativo (altrimenti torneremmo a Mileto): Galileo farà un passo in più, e conierà la celebre metafora del mondo da intendersi come libro aperto, scritto in linguaggio matematico, e dunque chiaro alla nostra mente.
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Antropocene – 1. Che cos’è la coscienza?

1. Possiamo introdurre il percorso di quest’anno partendo dalla celebre espressione di Kant che ho scelto come titolo generale – “il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me” – contenuta nella conclusione della Critica della ragion pratica: le due direzioni dello sguardo cui qui si allude – fuori di me (il cielo stellato) e dentro di me (la legge morale, ma, più in generale l’intera sfera mentale, sia emotiva che razionale) – riguardano proprio la duplicità costitutiva della coscienza.
La coscienza è esattamente questo duplice modo di sentire e di considerare l’esistenza, uno rivolto all’interno e uno all’esterno. Che è come dire che la duplicità di corpo e mente (o anima o coscienza) è già contenuta nella coscienza stessa, che sembra quasi sdoppiarsi e fondare questa dicotomia.
L’esame di questa duplicità – che è anche un’opposizione – costituirà il nostro percorso di quest’anno, che avrà così un carattere insieme filosofico ed antropologico: natura e cultura – insieme a corpo e mente, materia e spirito – saranno i due poli principali di questa oscillazione originaria della coscienza.
Ho detto “originaria”, ma occorrerà verificare esattamente che cosa qui si intende per origine.

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Ottavo fuoco: la bellezza

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Avevamo parlato due anni fa dell’arte. Ora è il turno della bellezza, cui inevitabilmente questa rinvia. Ma se l’arte è il fronte oggettivo, visibile, espressivo del mondo estetico, la bellezza ne è lo sfuggente lato soggettivo, legato al gusto e al piacere individuali.
Arte (e natura) si stagliano – sterminati e muti – di fronte a noi, laddove è il sentimento della bellezza in noi a scuoterci. Ma donde viene questo sentimento? Come si è formato? Cos’è?
È questa la domanda – che possiamo volgere anche nella forma classica, e un po’ abusata, del bello in sé o bello per noi: è bello perché ci piace o è bello perché lo è in se stesso?
Già la formulazione di questa domanda richiede un chiarimento terminologico tra piacere e bellezza, ma ci torneremo tra poco.
Cominciamo col dire che i filosofi hanno risposto in modi diversi al quesito, e che solo da un paio di secoli e mezzo è nata quella disciplina filosofica denominata Estetica, che si occupa di bellezza, di gusto, di arte in maniera sistematica, cercando di fare ordine e chiarezza in questo campo, sia a livello percettivo che formale.
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Concetti-capestro

Elogio della dialettica_Magritte

Luciano Parinetto utilizzava spesso l’espressione “concetti-progetto” per designare quelle categorie o prospettive filosofiche che, anziché ingessare il discorso filosofico in un’autoreferenziale celebrazione accademica (o nella deificazione del reale-reale, che è poi l’astratto-astratto), aprono al futuro e alla trasformazione radicale dell’esistente. Prassi pensante e utopia concreta (non sterile utopismo).
Così come in filosofia esistono i concetti-progetto, esistono anche i concetti-capestro. Tutto, essere, nulla, realtà, verità, sostanza diventano spesso e volentieri, nelle mani e nelle menti maniaco-ossessive di certi ontologisti (ma anche in quelle riduzionistiche o semplificazionistiche di certi scientisti o realisti più del re), concetti che se da una parte si ammantano di solidità e luccicano ammiccanti promesse di risposte definitive alle domande più radicali, dall’altra rischiano spesso di diventare vecchi arnesi della fumisteria reazionaria.
Tutto, essere, nulla eccetera – che pure sono le parole essenziali evocate dai filosofi greci – continuano a metterci di fronte a quella strana/straniata/straniante sfera, che Kant aveva definito del noumeno, che volenti o nolenti finisce per naufragare nel territorio dell’inattingibilità. Il limite, cioè, oltre il quale la mente si smarrisce e si imbarca in direzione dei marosi della metafisica. Ed è proprio l’analisi kantiana del concetto di limite (che è forse il nucleo essenziale del pensiero di Kant) a descriverci con precisione questa inevitabile dialettica con naufragio finale.
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