Premessa inevitabile e contingente: stiamo sperimentando in questi giorni una forma molto particolare (e inaspettata) di spazio – quella della distanza di sicurezza, della misura che ci allontana dall’altro e ci protegge (o, viceversa, protegge l’altro) dal contagio.
Esiste dunque anche uno “spazio” e, addirittura, una “metafisica” della peste. Ne ha parlato, ad esempio, Sergio Givone in un bel saggio di qualche anno fa. Lo spazio, in questi termini, ci appare come uno “spazio vitale” (Lebensraum era parola terribile dell’ideologia nazionalsocialista) – lo spazio che ciascun vivente occupa e che non può essere condiviso con un altro vivente, il quale si deve tenere a debita distanza. Viviamo nell’epoca per antonomasia dell’immunizzazione e della biopolitica: lo stato istituisce e gestisce lo spazio vitale nel quale i corpi che lo compongono (vedi Hobbes!) devono essere sani e immuni. La cultura sembrerebbe non essersi poi così allontanata dalla natura.
D’altro canto lo strato sterile ed immunizzante che ci avvolge – l’igiene, il mondo artificiale, la tecnologia, le macchine, gli algoritmi – crea l’illusione di una separazione (e protezione) dalla natura e dai suoi pericoli. L’ecumene, lo spazio umano, sovrasta la biosfera, lo spazio naturale. Ma è sufficiente un virus – o un piccolo sommovimento della sfera terrestre – a sconvolgere le nostre certezze, e a riprecipitarci nell’angoscia originaria. Lo spazio torna a contrarsi, se non a sbriciolarsi.
Eppure l’animale politico e socievole che noi siamo, nonostante la crescente individualizzazione e separazione dei soggetti, soffre terribilmente di questa distanza e lontananza: toccarsi, abbracciarsi, stringersi, stare vicini – saturare uno spazio, riempirlo di senso – è elemento essenziale della socialità, dell’affettività, dell’emotività umana. D’altro canto, anche la distanza dall’altro, l’avere spazio attorno a sé (ricordate quel che diceva Simone Weil ne La persona e il sacro?), il poter respirare in un ambiente fin troppo ristretto, è altrettanto essenziale. Lo spazio si mostra così come un elemento ambivalente e dialettico, che si allarga e si restringe: il mio spazio e lo spazio sociale, il confine e l’orizzonte, il perimetro e l’illimitato – il mio corpo e il cosmo infinito.
Ancor più inquietante è l’invisibilità, qualità che lo spazio e il virus hanno in comune: siamo costantemente “toccati dall’ignoto”, per dirla con Canetti – e tanto lo spazio infinitamente grande quanto l’infinitamente piccolo, sono misteriosi, insieme terribili e al contempo affascinanti.
Lo spazio che ci avvolge e lo spazio che si insinua in noi – entrambi ci mozzano il respiro!
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Spazio è uno di quei concetti così ampi e fondativi da risultare sfuggenti quando non imprendibili. Fa il paio con concetti generali come essere, tempo, totalità, e simili.
Ma se nel caso dell’essere ci si fa sempre innanzi una sua “miniatura” ed esemplificazione (questa tastiera è, le dita con cui sto scrivendo sono, la mia mente esiste – per quanto nessuno saprebbe toccare con mano l’essere in quanto tale), nel caso dello spazio si annaspa nel vuoto (concetto con cui è imparentato, tra l’altro), perché lo spazio sembra essere un contenitore, una cornice, ben più di un contenuto – qualcosa che viene riempito o determinato da altro. Lo spazio rinvia ad altro, in una progressione infinita.
Credo che già nel pensiero dei presocratici si abbia a che fare con questo concetto, seppure nominato in modo diverso: Anassimandro, ad esempio, indica nell’àpeiron l’origine di tutte le cose – e à-peiron è l’indeterminato, l’illimitato, se si vuole uno spazio vuoto, un informe caos originario da cui si originano le forme. È allora chiaro che per afferrare questo concetto così sfuggente dobbiamo trovare degli appigli, delle determinazioni: se io dico “stanza”, oppure “corpo”, o “ambiente naturale” o “sistema solare”, o “città” o “Grecia” o “Europa”, mi si presenta innanzi un’idea già più determinata di spazio, un suo “ritaglio”. È precisamente la concezione che aveva dello spazio Aristotele, che infatti lo concepisce come tòpos, luogo. Ma tòpos è, appunto, la localizzazione determinata, il posizionamento di qualcosa all’interno del tutto, di un ente all’interno della natura: i limiti di un corpo, potremmo dire, ciò che un corpo occupa in termini di forma spaziale (non esistendo per Aristotele il vuoto, tutti gli spazi, i luoghi, sono pieni di corpi): lo spazio è allora il confine, il discrimine tra un corpo e l’altro – il perimetro, péras, contrario di illimitato. Lo spazio è l’insieme dei limiti dei corpi, a sua volta finito – il cui limite estremo coincide con il cielo delle stelle fisse.
Ma in Platone ed Aristotele c’è anche un altro aspetto della spazialità da prendere in considerazione, in un’accezione più cosmologica o metafisica che naturalistica: lo spazio è anche un ordinamento, una suddivisione, una gerarchia tra alto e basso. Il mondo sensibile, diveniente e sublunare contro il mondo perfetto delle sfere, delle idee, dei cieli immobili.
Sarà poi il modello cosmologico riproposto da Dante nella sua “spazializzazione” delle tre cantiche, dalla selva oscura all’Empireo, laddove l’uomo non è al centro del cosmo, ma in basso, nello sprofondo, nel luogo più infimo, e solo tramite l’elevazione spirituale egli può raggiungere la vetta divina (anche qui il vettore spaziale ricorda quello neoplatonico e plotiniano, che va dal basso materiale all’alto celeste, dall’oscurità alla luce, dal nulla alla pienezza).
Ma già nell’antichità questa visione è criticata, tra gli altri, dall’epicureo Lucrezio, che in alcune bellissime pagine del De rerum natura anticipa la concezione moderna, infinita e acentrata dello spazio, quale ad esempio troveremo in Giordano Bruno. Credo valga la pena citare qualche passo del testo di Lucrezio: «Tutto ciò che esiste è dunque illimitato in ogni senso; infatti diversamente dovrebbe avere un estremo […] Ora, poiché si deve riconoscere che fuori del tutto non può esistere nulla, l’universo non ha estremo, né confine, né misura. Né importa in quale sua parte tu sia situato; sempre, in qualunque luogo uno si fermi, da ogni lato lascia ugualmente infinito l’universo». Segue il celebre esempio del dardo lanciato all’estremo confine dell’universo, che finirebbe pur sempre in un luogo, rendendo impossibile fissarne il limite, e che anzi richiederebbe una perenne fuga della sua traiettoria. S’apre dunque ovunque “immenso spazio alle cose” e l’infinità dell’universo determina l’inesistenza di un qualunque centro: 1500 anni dopo Giordano Bruno coltiverà idee simili e parlerà di infiniti mondi e mancanza di centri.
Anche la piega barocca di Leibniz è smisurata – ma stiamo parlando di linee materiali e di pieghe dell’anima che si avvolgono e si dispiegano all’infinito: l’infinito non è solo quello del cosmo, ma anche quello del microcosmo, dell’anima, dell’infinitamente piccolo (non è un caso che Leibniz si occupi di calcolo infinitesimale).
Si colloca a questo punto una vera e propria cesura di carattere storico: con i viaggi agli inizi della modernità, la scoperta del nuovo mondo, la nascita della cartografia, la mappatura del mondo, ecc. – quelli che diventeranno i futuri spazi globali – la concezione dello spazio terrestre (e, in alternativa, di quello marino) si modifica radicalmente. Diventa spazio geografico, o meglio geopolitico: lo spazio coloniale, lo spazio economico, lo spazio delle potenze statali.
Parallelamente a questo processo di ampliamento degli spazi geografici, si afferma infatti il processo di creazione dello stato moderno, e dunque di una nuova concezione della territorialità, della sovranità e del rapporto tra spazio e potere (in un arco che va da Hobbes a Carl Schmitt): un processo che porterà infine a ritagliare l’intero pianeta in spazi delimitati (gli stati che occupano l’intero territorio, senza più interstizi o aree terrestri libere, fino a stabilire addirittura aree di influenza tra i ghiacci dell’Antartide).
Ma lo spazio in epoca moderna ha anche un fronte di interesse strettamente cognitivo. E di fatti Hume e Kant danno dello spazio una connotazione soggettiva ed intuitiva: per Kant non ci può essere uno “spazio assoluto” così come veniva concepito da Newton, ovvero uno spazio esterno che contiene tutti i corpi – quanto piuttosto uno spazio interno, una rete mentale, la forma intuitiva attraverso cui noi catturiamo e collochiamo tutti i fenomeni. Che si svolgono, appunto, nello spazio e nel tempo – cioè entro un ordine esperienziale che ci rende possibile ordinarli e conoscerli: si pensi a qualunque cosa (un oggetto, una persona, una forma, un evento), e risulterà impossibile non collocarla in una dimensione spaziale. Persino un’idea astratta dovrà trovare una sua collocazione – sia essa il cielo (iperuranio) di Platone oppure la nostra mente. Similmente il tempo è la forma originaria e intuitiva attraverso cui percepiamo la consequenzialità dei fenomeni: ma l’ordine del tempo è in noi, più che nei fenomeni.
Tempo e spazio rimarranno ancora separati, almeno fino alla rivoluzione einsteiniana. A quel punto vi sarà un’unica dimensione “elastica”, lo spaziotempo: lo spazio, cioè, è parte in causa, o meglio è un “campo” tetradimensionale di fenomeni. È lo spazio stesso a flettersi, ondulare, curvare, ciò che lo rende lontanissimo dall’immagine tradizionale di uno spazio-contenitore.
Ci sarebbe anche un campo poco esplorato dal pensiero filosofico, che è quello del rapporto tra spazio e corpo biologico: come si origina l’orientamento nel mondo a partire dai piani corporei delle forme di vita?
Ma nel Novecento buona parte del pensiero filosofico perde interesse per la dimensione scientifica o metafisica dello spazio (delegate piuttosto all’astrofisica e alla cosmologia), per rivolgere la sua attenzione ad altre modalità più centrate sulla dimensione soggettiva ed esistenziale. Noi umani siamo essenzialmente abitatori del mondo, e dunque dei luoghi, di uno spazio che è radicato nella terra: sarà in particolare Heidegger a concentrarsi su questo aspetto originario del nostro abitare/utilizzare un mondo fin da sempre ordinato e spazializzato dal nostro modo di esistere e di interagire con le cose.
Ed ecco che da qui discende tutta una fenomenologia dell’abitare e dell’organizzare gli spazi molto feconda, lungo tutto il Novecento. Basti pensare alla riflessione sul concetto di mondo (opposto ad ambiente naturale), sul paesaggio e sulle sue trasformazioni, sulle città, sulla casa (lo spazio dell’intimità) e sull’abitare la quotidianità – nonché su tutti i simboli e le tecniche architettoniche della spazializzazione: i ponti, i muri, le barriere, le finestre, le porte, le soglie, ecc.ecc.
Da ultimo tutti gli spazi così organizzati vengono messi in discussione dai processi post-moderni (o ultra-moderni) di deterritorializzazione e di globalizzazione. Dalla liquefazione dei confini e dall’indebolimento (reale o presunto) del potere statale, dalla nascita dei non-luoghi (specie in conseguenza dell’incremento della mobilità), dall’omogeneizzazione di tutto lo spazio terrestre, reso eguale dalla mercificazione e dal denaro: uno spazio liscio e indifferente nel quale merci, flussi di denaro, idee, umani (ma non tutti allo stesso modo) possano muoversi liberamente.
Tutto ciò si accompagna a nuove forme dell’abitare, dell’essere nel mondo, del percepire luoghi e spazi, nuovi modelli metropolitani, anonimi ed omologati. Che concezione dello spazio ha un abitante di una megalopoli?
Per non parlare della trasformazione della mentalità seguita alla nascita del telefono, e del successivo avvento della rete digitale con la vorticosa velocizzazione dei movimenti e dei trasporti: una straordinaria e prima impensabile contrazione dello spazio, che quasi diventa uno spaziotempo simultaneo.
Che ne è dello spazio all’epoca dei social? Dove siamo quando siamo connessi alla rete? In quale dimensione spaziotemporale? La figura – ormai consueta – di un individuo che seduto in treno o mentre cammina per strada è del tutto assorbito dallo schermo di uno smartphone (in uno spazio virtuale) ha radicalmente modificato il nostro modo di intendere i luoghi e le relazioni.
Ci sarebbe infine da aprire un ultimo capitolo sul riflesso che tutto ciò ha avuto in ambito estetico – o su quanto, viceversa, il mondo dell’arte abbia modificato il nostro modo di intendere lo spazio, di guardare i luoghi, di percepire le distanze: basti pensare alla fotografia o al cinema. Specialmente le avanguardie artistiche con le loro opere ci restituiscono visivamente queste trasformazioni e questi cambi di paradigma. Quella che era stata una rivoluzione del modo di guardare e di rappresentare lo spazio – la prospettiva rinascimentale – viene messa in discussione: ad uno spazio non più lineare corrisponde uno sguardo e una sensibilità estetica nuova e multiprospettica (basti pensare ai quadri di Cezanne, al cubismo o al futurismo).
Ma mi limiterò a citare qualche pensiero interessante tratto da un breve saggio di Heidegger intitolato L’arte e lo spazio, e dedicato soprattutto alla scultura, dove la questione filosofica della collocazione spaziale viene considerata come fondativa del nostro modo di essere e di abitare i luoghi, a prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo. Anzi, sono forse proprio questi fondamenti (ciò che nello scorso incontro avevamo indicato come l’impensato) a sfuggirci più di ogni altra cosa. Ma lasciamo parlare il filosofo tedesco, che si chiede:
«Di che cosa parla il linguaggio nella parola spazio? Nella parola spazio parla il fare – e lasciare – spazio. Il che significa disboscare, dissodare. Il fare-spazio porta il libero, l’aperto per un insediarsi e un abitare dell’uomo. Il fare-spazio è, pensato in ciò che gli è proprio, libera donazione di luoghi in cui i destini degli uomini che vi abitano si realizzano nella felicità del possesso di una patria o nella infelicità dell’esserne privi o nell’indifferenza rispetto all’una o all’altra di tali possibilità». Particolarmente ispirato, Heidegger sembra affidare all’uomo un compito di custodia dei luoghi e delle cose che i luoghi raccolgono – quel che in Essere e tempo aveva definito la cura: «ma ciò signifcia al tempo stesso custodire, il raccogliersi delle cose nel loro reciproco con-appartenersi».
L’ha ripubblicato su La solitudine del Prof.