Funziona proprio come la madeleine proustiana. Schegge di ricordi che rievocano interi mondi sepolti, che prima o poi riemergono intatti, anche se talvolta in forma di blocchi psichici da reinterpretare o da tradurre. E comunque le immagini tornano vivide, specie quando si tratta di episodi illuminati dal sole estivo (evidentemente sono un animale mediterraneo prestato alle terre dei barbari).
Ad ogni modo, questa è la visione concessami dalla memoria.
Ho 7 anni circa (di sicuro non ne ho ancora compiuti 8) e la mia curiosità infantile è fatalmente attratta dalla solerte attività lavorativa che si svolge in una cantina del cortile dove abito (e che non so bene, a posteriori, se fosse o meno clandestina). C’è questa famiglia – lui è “il signor Giacomo” e lei “la signora Maria”, come mia madre mi ha insegnato a dire – con 2 o 3 figlie, non ricordo bene. Una famiglia di origine veneta, dunque terrona come la mia, cambia solo l’accento ma la sostanza è la stessa – una ferrea etica del lavoro e del sudore, poi che abbiamo lasciato la nostra dura terra per venire in quest’altra dura terra semistraniera a far fortuna.
Ma io di tutto questo so poco o nulla. So solo di essere attratto da quelle macchine (due lunghe file nella cantina tetra) che non so nemmeno come si chiamano, e che hanno a che fare con la filatura del cotone: un frammento del sistema lavorativo lombardo, quella catena che va dal filo all’abito da indossare (ma anche di questo nulla so e francamente non m’importa). Arrivano, non so bene con che frequenza (anzi, ora che ci penso non ho mai visto furgoni da scaricare), casse contenenti dei tubi di plastica avvolti dal filato fitto, che dovranno poi essere piazzati sugli appositi supporti della megamacchina, la quale fa in modo che il filo venga trasferito sulle rocche; queste, dopo essersi ingrossate per bene e avere raggiunto la giusta dimensione, partiranno alla volta di chissà quale fabbrica tessile della zona.
Tutti questi meccanismi e ingranaggi, il filo, le macchine, l’attività frenetica di quella famiglia, mi fanno impazzire. E allora – non so se la proposta sia partita per scherzo dalla signora Maria o se, più probabilmente, sia stato io a voler scendere a tutti costi in quella cantina – finita la scuola (credo fosse la seconda elementare), mi metto a lavorare.
È una cosa che mi rende felice. Vorrei star lì tutto il giorno. Si comincia col caffé – il rito del caffé che le donne prendono in casa prima di scendere nel laboratorio mi piace da matti, mi fa sentire grande. E poi tubi, filo e rocche che girano all’impazzata. Il mio compito è quello di sostituire i rocchetti – ecco, forse questo era il loro nome – o la paraffina, mentre a mettere e togliere le rocche a forma di cono, o a ricucire il filo quando si spezza, ci pensano la signora Maria e le figlie. Io mi imbambolo a guardare quelle rocche che crescono e quei rocchetti che diminuiscono, e tutto quel girare di rotelle e di ingranaggi, e il filo che corre ovunque. Puro godimento infantile di fronte alla magia dei meccanismi e della tecnica.
Ma c’era un’altra cosa che mi faceva ancor più gioire, e che riconduceva forse questo mio “lavorare” ad una dimensione più giocosa, e cioè quando dalle nuove casse, giunte magari notte tempo, spuntavano i filati a colori. Per lo più era cotone bianco, ma succedeva ogni tanto che arrivassero fili azzurri o gialli o rossi o verdi o arancio o rosa… e allora per me era doppia festa. In verità ero contento solo io, mentre le “signorine” ostiavano in dialetto veneto, dato che il filo si spezzava più facilmente – purtroppo però non ricordo quali fossero le invettive nella lingua madre, o forse erano fin troppo cattoliche e pudiche per dirle di fronte a me. D’altro canto ho anche memoria di una certa schiettezza, forse un retaggio della cultura contadina, senza tanti fronzoli, pane al pane, vino al vino.
Non so proprio dire se mi sfruttassero (mi par di ricordare che ad un certo punto i miei mi avessero proibito di andarci o avessero comunque posto dei limiti): so però che guadagnai le mie prime 1000 lire, anche se credo che non fosse questa la cosa che più mi dava soddisfazione.
Mentre lì sotto in quello scantinato si costruiva un frammento del miracolo italiano, il lavoro, la repubblica fondata sul medesimo, la revanche migrante, l’industrializzazione a tappe forzate, l’inurbamento, il boom e la promessa del benessere… e parallelamente là fuori, nelle strade e nelle piazze, gli operai e gli studenti cominciavano ad incazzarsi parecchio, a farsi domande sulla logica dello sfruttamento fino al punto di voler sovvertire gli antichi ordini… – un bimbo appena scolarizzato giocava al lavoro e si trastullava con le macchine. Chissà che cosa ci trovava di così magico!
Era la fine degli anni ’60, quasi mezzo secolo è passato, anche se sembra un millennio; negli anni successivi la scuola di massa avrebbe fatto il suo encomiabile lavoro, la coscienza sarebbe cresciuta ed anche l’immaginazione non sarebbe venuta meno, nonostante le incombenti disillusioni – eppure una parte di me è ancora imbambolata a fissare quelle rocche che girano.
le api nascono e vanno a bottinare sui fiori, i cuccioli degli umani nascono e vanno a crescere negli usi e costumi, dei simili più prossimi, e crescendo li modificano per il proprio bene e piacere!
se poi usano la sapienza e la scienza, allora possono costruire e scoprire cose meravigliose, alcuni di loro hanno, innata, l’arte della bellezza! e tutti gli uomini si commuovono di fronte a tale cosa
e tutti gli umani si realizzano nel lavoro! e le api si accontentano di bottinare sui fiori.
@sandro: hai evocato la parola “bottinare” che avevo completamente rimosso, ben più dell’episodio che qui narro e che, grosso modo, fa parte del periodo in cui quella parola potrebbe essersi infilata nella mia mente, per poi rimanervi sigillata fino ad ora… strana cosa la memoria!