Il nostro terzo incontro avrà come oggetto di discussione la religione. Naturalmente è un argomento vastissimo, noi ci limiteremo a domandarci se ha ragione Marx nel definirla oppio del popolo, e quale possa essere il senso di questa definizione in un periodo così tormentato (anche in termini religiosi) come il nostro. A guidarci sarà L’essenza del cristianesimo, un saggio del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, pubblicato nel 1841 e cruciale (anche per Marx) sul significato della religione nella vita umana – con un approccio che antropologizza la teologia e umanizza il divino, invertendo così i termini del rapporto che lega l’uomo a Dio (il predicato e il soggetto), svelando il “trucco religioso” e smascherandone il vero senso: non Dio crea l’uomo, quanto piuttosto è l’uomo a creare Dio, riponendo in esso le cose essenziali, i tesori della propria umanità. Se tradizionalmente si pensava che il soggetto-creatore fosse Dio, e l’uomo il predicato che ne deriva, occorre invece rovesciare questo rapporto, e rimettere le cose al loro posto.
Vorrei cominciare con un fatto biografico, che spiega in parte la scelta di questo testo. Nella mia adolescenza ebbi un periodo di grande fervore religioso: tra i 15 e i 20 anni, sulla scorta di incontri e letture (Dostoevskij in particolare), vissi un’esperienza molto ricca e convinta di fede e di cristianesimo militante, nella quale riversai idee, ansie ed aspirazioni tipiche di quell’età. Il mito di una vera e propria palingenesi, di una rigenerazione umana, dell’avvento di un “mondo nuovo” e di un’esistenza autentica, segnarono i miei passi in quel cammino.
Quando poi, all’inizio dell’università, incontrai alla Statale di Milano Emilio Agazzi, docente marxista che ricopriva la cattedra di Filosofia della Storia, e seguii le sue lezioni sul giovane Marx, ebbi l’opportunità di conoscere quel celebre testo di Feuerbach. Ho un ricordo vivido del giorno in cui – credo nell’autunno del 1983 – quello che sarebbe poi stato uno dei miei primi maestri filosofici, tenne una memorabile lezione sull’alienazione-proiezione dell’essenza umana in Dio, leggendo e commentando alcuni passi dell’Essenza del cristianesimo: fu per me una vera rivelazione. Uscii dall’aula universitaria e vagai per qualche ora per le strade di Milano in preda ad un’eccitazione intellettuale nuova, con la netta sensazione che nella mia mente si stesse squarciando un velo e facendo chiarezza – fu come l’illuminazione di San Paolo sulla via di Damasco. Ma allora io sono ateo! E tutto ciò in cui ho finora creduto era solo un cumulo di illusioni!
Ma prima di approdare brevemente al testo di Feuerbach, vorrei esibire come delle “istantanee” su alcune concezioni del fenomeno religioso prodotte dal pensiero filosofico, chiarendo però fin da subito che:
a) la filosofia nasce fondamentalmente in contrapposizione con il pensiero religioso (con il mito o le spiegazioni soprannaturali), e tende fin da subito a riportare tutte le questioni sul piano terrestre, naturale, materiale;
b) nel momento in cui si guarda al fenomeno religioso attraverso gli occhi della razionalità, gli si toglie immediatamente ogni aura mistica, lo si “oggettivizza”, lo si fa diventare un fenomeno tra gli altri. Soprattutto lo si depotenzia in quel che è il suo elemento essenziale – quello del “sentimento” e della “fede”.
Ma veniamo alle suggestioni, che vorrebbero gettare uno sguardo anche sulla storia occidentale (ma non solo) e sul suo rapporto con la religiosità.
1. Le divinità classiche (paganesimo, grecità)
Il politeismo risulta con molta evidenza una proiezione di caratteri tipicamente umani in un pantheon extraumano. Ma nel momento in cui la filosofia si contamina con questo mondo possono succedere cose come:
-la teoria degli intermundia di Epicuro: gli dèi stanno per conto loro, sospesi in una dimensione separata dai mondi, eternamente beati, e non hanno molto da spartire con le vicende umane;
-oppure il dio aristotelico – un dio gelido, razionale, “motore immobile” (ovvero ciò che fisso e non causato muove ed è causa di tutte le cose, e che a ben vedere si riduce a “pensiero”, o meglio “pensiero di pensiero”).
È evidente come un dio del genere sia molto lontano da fede, sentimento, sacrifici, adorazioni, credenze, superstizioni e quant’altro. È piuttosto un dio prodotta dalla ragione.
2. Con l’avvento del cristianesimo in Occidente, la religione diventa una struttura sempre più totalizzante (in termini di pensiero, mentalità, immaginario, organizzazione sociale), e la filosofia tende per converso ad assumere il ruolo di “ancella”, serva della teologia, che ne incorpora molte teorie (soprattutto quelle platoniche ed aristoteliche): come a dire che in primo piano vi è il divino (il soggetto), mentre decisamente in secondo piano sta l’uomo (predicato) che ne deriva, ne dipende, ne è, appunto, assoggettato.
Tale elemento di sottomissione appare ancor più chiaramente in un’altra forma di monoteismo (la terza dopo ebraismo e cristianesimo), ovvero l’Islàm, che fin nel suo nome ci rivela questa forma di radicale sottomissione (ma anche di abbandono e consegna totale di sé a Dio, luogo di pace e di sicurezza). Nella filosofia islamica (che molta importanza ebbe anche per la filosofia medievale europea) il conflitto tra fede e ragione è testimoniato nei più importanti pensatori: Avicenna, al-Ghazzali (che scrisse il celebre testo La distruzione dei filosofi), fino ad Averroè, l’ultimo filosofo arabo, del XII secolo, aristotelico e propugnatore della “doppia verità”, che lascia cioè giustapposte – esternamente – fede e ragione, religione e filosofia. Esse cioè non possono giungere a sintesi, possono solo coesistere – ma coesistere in una persona porta necessariamente ad una scissione, quasi una schizofrenia del suo atteggiamento nei confronti del mondo, a seconda che lo guardi con gli occhi della fede (spegnendo così la luce della ragione), o con un atteggiamento razionale, che vuole cioè indagare il mondo in totale autonomia e libertà, senza sottostare ad alcuna autorità. Dopo Averroè, fanatismo e intolleranza chiudono la bocca (“distruggono” come voleva al-Ghazzali) ai filosofi e al libero pensiero lungo parecchi secoli di storia della civiltà islamica.
3. Col Rinascimento europeo – e con la ripresa di un discorso filosofico e scientifico sulla natura – i pensatori tendono sempre più a ridimensionare la sfera religiosa e trascendente, e a fornire spiegazioni autonome, sia dei fenomeni naturali (iuxta propria principia, come sostiene Telesio, cioè attraverso leggi proprie) che di quelli umani. Sarà la riscossa della ragione, dell’autonomia di pensiero e di critica, della liberazione dalle autorità (sia temporali che spirituali, spesso coincidenti): il mondo è qui, in tutta la sua ricchezza e varietà, non sta in un cielo trascendente che lo vorrebbe dominare.
4. E sarà proprio Ludwig Feuerbach [1804-1872] – che si serve però di una tradizione filosofica di almeno due secoli – a compiere questo processo di totale umanizzazione del fenomeno religioso, che dunque non vede più distacco e lontananza o sottomissione, e nemmeno compromessi (come in epoca classica o medioevale), ma addirittura una convergenza-coincidenza.
L’uomo, come si è già detto, è il creatore della sfera divina e religiosa, nella quale proietta la sua propria essenza. Questa in massima sintesi l’operazione svolta da Feuerbach, che è insieme critica (opera sistematica di disvelamento di illusioni e falsità teologico-clericali), e ricostruttiva di un senso tutto umano dei valori – dell’essenza – alienata nella religione e nel cristianesimo in particolare.
Basterà leggere alcuni brani estrapolati dal testo, per rendersi conto della radicalità ed epocalità della riflessione feuerbachiana:
“L’essere divino è l’essere umano trasfigurato attraverso la morte dell’astrazione – è lo spirito dell’uomo staccato dal corpo.”
“L’uomo non può uscire dalla propria natura. Ben può immaginare con la fantasia individui diversi da lui, di pretesa natura superiore, ma assolutamente mai può astrarre dalla propria specie, dal proprio essere; le qualificazioni essenziali che egli conferisce a questi altri individui sono sempre qualificazioni attinte dalla sua propria natura, e non sono in realtà che la sua propria immagine.”
“La religione precede sempre la filosofia nella storia dell’umanità così come nella storia dei singoli individui. L’uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé… La religione è l’infanzia dell’umanità.”
“L’uomo afferma in Dio ciò che nega in se stesso.”
“Dio è l’intimità manifesta, il pronunciarsi del sé dell’uomo.”
“L’uomo – questo è il mistero della religione – proietta il proprio essere fuori di sé e poi si fa oggetto di questo essere metamorfosato in soggetto, in persona; egli si pensa, ma come oggetto del pensiero di un altro essere, e questo essere è Dio.”
“Nella religione l’uomo opera una frattura nel proprio essere, scinde sé da sé stesso ponendo di fronte a sé Dio come un essere antitetico. Nulla è Dio di ciò che è l’uomo, nulla è l’uomo di ciò che è Dio. Dio è l’essere infinito, l’uomo l’essere finito; Dio perfetto, l’uomo imperfetto; Dio eterno, l’uomo perituro; Dio onnipotente, l’uomo impotente; Dio santo, l’uomo peccatore. Dio e l’uomo sono due estremi: Dio il polo positivo, assomma in sé tutto ciò che è reale, l’uomo il polo negativo, tutto ciò che è nullo… Si deve dunque dimostrare che questa antitesi, questa discordanza fra Dio e uomo, da cui trae origine la religione, è una discordanza fra l’uomo e il suo proprio essere.”
“Dio è lo specchio dell’uomo.”
“Ogni uomo deve perciò porsi un dio, ossia un fine.”
“L’uomo distingue sé dalla natura. Questa distinzione è il suo Dio; la distinzione di Dio dalla natura null’altro è che la distinzione dell’uomo dalla natura.”
“L’uomo nella preghiera adora il proprio cuore, contempla il proprio sentimento come l’essere sommo, divino.”
“L’uomo è l’inizio della religione, l’uomo è il centro della religione, l’uomo è la fine della religione.”
“Homo homini Deus est”
Quest’ultima frase posta nel capitolo conclusivo, ripresa da Spinoza (e contrapposta alla celebre teoria pessimistica di Hobbes, secondo cui l’uomo sarebbe un lupo per l’altro uomo – homo homini lupus), diventa un vero e proprio manifesto antropologico che Feuerbach vorrebbe lanciare per le generazioni a venire: l’applicazione pratico-storica del principio morale kantiano secondo cui l’uomo non può e non deve mai essere un mezzo, ma solo un fine per l’altro uomo. Se noi considerassimo davvero ogni altro uomo un dio, avremmo risolto tutti i problemi planetari di guerra, violenza, sopraffazione, odio, ingiustizia.
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L’analisi di Feuerbach – che avrà una vasta eco nella cultura europea dell’epoca ed anche successivamente – troverà un compimento, quasi senza soluzione di continuità, nel progetto marxiano di totale riappropriazione umana di tutte le forme di alienazione, all’interno però di un quadro teorico più coerentemente materialista e, soprattutto, concretamente storico-sociale. La rivoluzione non dovrà essere fatta solo nella testa, tramite parole o concetti, ma in primo luogo nella prassi storica e nella società.
A tal proposito è opportuno citare alcuni brani di uno scritto del giovane Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel (siamo alla fine del 1843, inizi 1844, solo due anni dopo la pubblicazione del libro di Feuerbach), che contiene tra l’altro quello che diventerà uno dei più celebri slogan del marxismo, ovvero la qualificazione della religione come oppio dei popoli:
“Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto, posto fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne compimento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale.
La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola.
La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi. La critica della religione disinganna l’uomo affinché egli pensi, operi, configuri la sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all’uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso”.
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Tale solarizzazione e divinizzazione dell’uomo – e toglimento di potenze estranee che lo controllano e sottomettono – è senz’altro un elemento determinante della storia degli ultimi due secoli, di espansione della potenza tecnica e di sistematica sottomissione della natura. Se l’uomo è dio, la natura diventa il suo regno. E davvero tutto ciò che prima costituiva le caratteristiche della divinità – il sommo bene, l’onnipotenza, l’immortalità – diventano caratteri e fini dell’umanità.
Questo naturalmente comporta anche dei pericoli: il superamento di ogni limite e legame – che la religione poneva in un’alterità irraggiungibile – diventa volontà di potenza (e di onnipotenza). Il suddito-figlio si crede ora il padrone assoluto della natura, il re del mondo, tutto gli è ai piedi, lui è davvero il vertice della creazione – ma il creatore non è più dio, bensì l’uomo stesso.
L’uomo è “animale antropoforo” (secondo la definizione del filosofo francese Kojève) – portatore e insieme negatore di se stesso, di ciò che ne costituisce il supporto. Ed è questa negatività assoluta a farne un dio – il dio che può distruggere se stesso. Cosa piuttosto evidente, al di là della terminologia filosofica, se si getta uno sguardo sul pianeta, in questo inizio di millennio.
Ciò che dunque si compie in epoca moderna con i pensatori che materializzano ed antropomorfizzano il fenomeno religioso (Feuerbach e Marx su tutti, e, più tardi Nietzsche che proclamerà a viva voce che Dio è morto) – comporta anche una fortissima assunzione di responsabilità, una centralità – un radicale antropocentrismo – che se prima era nascosto dalle fumisterie dell’oppio religioso, ora appare in tutta la sua verità: l’uomo diventa il fautore del proprio destino, egli non viene da altri mondi e non è destinato ad altri mondi, il suo unico orizzonte è quello terrestre. E lui è dio – nel bene e nel male – di quest’unico orizzonte.
l’uomo è l’animale malato di protagonismo, malato di egocentrismo, malato di desiderio di eternità.
non c’é cura per queste malattie.
Passata la virulenza dell’infezione che l’uomo rappresenta per il pianeta, gli altri animali potranno finalmente godere della loro breve esistenza, senza domande, senza aspettative, senza il pensiero che ha corrotto la scimmia nuda.
e sia così…
Che l’uomo sia Dio è una contraddizione semantica. Se l’uomo è Dio non può distruggere se stesso, poiché, rimanendo al significato comune di Dio, è onnipotente. Ma può certamente distruggere se stesso. Dunque l’uomo non è Dio ma è parte del Divino. Il Divino contraddice come un muro invalicabile (e lo fa fino a prova contraria) quella volontà di potenza che lo spinge oltre i limiti. Per un termine caro a Severino, lo fa in virtù della sua “technè”, che da mezzo ideologico diviene esso stesso il fine dell’uomo accecato dalla sua volontà di potenza. Il divino è qualcosa di più simile ad un fuoco che “di misura si spegne e di misura si accende” per usare un espressione eraclitea. Permea ogni cosa, ed è logos, non in senso di ragione platonica, ma di interrelazione, rapporto, legame tra gli elementi che costituiscono l’universo. Quel logos per il quale “da uno tutte le cose da tutte le cose l’uno”. Il divino per tanto non è solo ragione pensante (la ragione entetizzante e calcolatrice dell’uomo) ma è anche intuizione del legame con la natura, in un rapporto che è funzionale ma non gerarchico. Il divino è questo, è anche mistero ” perché così profondo è il suo logos”
È il divino così come ripensato da Spinoza, cui la modernità ha volto le spalle. Ma è l’unica “sacra” possibilità che intravvedo all’ orizzonte per un vivere comune e correlato – non smisurato – degli umani dei viventi di tutte le cose.