JÜNGER, LA FOTOGRAFIA E IL MONDO MUTATO

Maurizio Guerri, filosofo e ricercatore presso la cattedra di estetica dell’Università Statale di Milano, studioso di Spengler, Jünger, Nietzsche, e della lettura filosofica del fenomeno guerra, ha organizzato un’interessante mostra fotografico-filosofica presso la ex-chiesa di San Carpoforo a Milano (zona Brera), edificio splendido, ma trascurato e sottoutilizzato. Accompagna la mostra un fittissimo calendario di incontri sul tema della violenza.

Ernst Jünger, filosofo tedesco del ‘900 (di tutto il Novecento visto che è vissuto fino a 103 anni), ha curato negli anni ’30 ben cinque volumi fotografici. Ma perché un filosofo si dovrebbe occupare di fotografia?

Tale interesse va senz’altro ricondotto alla genealogia del terrore e dell’ossessione securitaria che costituisce un capitolo essenziale delle ricerche jungeriane. L’attualità di Jünger sta proprio nell’aver capito come la “mobilitazione totale” dispiegata durante la prima guerra mondiale abbia chiaramente rivelato i caratteri della nuova scena mondiale che si andava costituendo: “un processo di fusione di guerra e lavoro che non dà come risultato la semplice somma delle due attività, ma segna una svolta epocale, una ‘mutazione genetica’ della storia, un nuovo scenario spazio-temporale fatto di normalità violenta in guerra e di violenza normalizzata in pace”.

Il lavoro, il controllo sociale (sempre più interiorizzato), l’intreccio di ordine e pericolo, la tecnica dispiegata sono gli elementi di un’ “opera di mutazione dei luoghi e delle culture del pianeta in un unico spazio uniformato e funzionale alla sperimentazione del sistema-lavoro” – al punto che l’attuale “scontro di civiltà” (o di inciviltà, come giustamente lo definisce la mia amica Nicoletta Poidimani), è solo fumo rispetto all’arrosto di quel che sta realmente accadendo.

E la fotografia? Secondo Jünger l’occhio telescopico e meccanizzato è sintomo e parte del processo, tutt’altro che neutrale. Anzi, è proprio questa neutralità anestetizzante (per esempio nella riproduzione/serializzazione del dolore, molto simile all’anestetizzazione medica dei corpi) ad essere uno dei sintomi principali dell’era globale della tecnica. C’è nella fotografia una dimensione “intrusiva”, “violenta”, che “tende ad abolire l’esperienza, la separazione tra pubblico/privato e compie il primo passo verso la realizzazione di una controllabilità globale, che si impone come unica risposta al terrore politico, sociale, igienico che assedia la vita contemporanea”.

Queste, in pillole, le tesi di Jünger, discusse e condivise da Guerri (si veda il saggio La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Junger, nel volume Il mondo mutato, edizione Mimesis, da cui sono tratte le citazioni), e su cui concordo in gran parte. Il fatto poi che talvolta mi ritrovi ad essere un entusiasta apologeta dello sviluppo tecnologico (convinto come sono che senza la tecnica noi saremmo tutta un’altra specie, tutta un’altra cosa, non saremmo umani), non mi fa certo chiudere gli occhi (per lo meno l’occhio della mente, dato che quello telescopico produce spesso uno sguardo passivo e un po’ ebete) di fronte agli immani pericoli che corriamo, proprio nei termini posti ormai 70 anni fa, con grande lungimiranza, dal filosofo tedesco.

Ma non mancherò di tornare sulla crescente divaricazione tra la superficie e l’interno, la “visione telescopica” e l’esperienza, la spettacolarizzazione/uniformazione del mondo e il vissuto dei corpi e delle relazioni. A tal proposito proprio ieri su Nazione Indiana è comparso un bell’articolo di Franco Arminio: http://www.nazioneindiana.com/2007/09/21/indignazione-e-gentilezza/

Per informazioni sulla mostra: http://www.junger.it/junger.swf

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

4 pensieri riguardo “JÜNGER, LA FOTOGRAFIA E IL MONDO MUTATO”

  1. Grazie. Avevo già letto l’articolo di Arminio, e avrei voluto segnalarlo, soprattutto il finale che riporto.
    “Viviamo in un mondo in cui ognuno ha dichiarato guerra a tutti gli altri. È in atto la terza guerra mondiale. È in atto tra gli individui e non tra le nazioni. Tra un individuo e l’altro ci sono solchi profondissimi. Da qui bisogna partire. I soldi che sprechiamo per mantenere partiti inutili sono bene poca cosa rispetto a quello che regaliamo alle compagnie telefoniche per telefonate che non ci danno calore ma ce lo tolgono.
    C’è anche la casta dei dispettosi e degli indifferenti, degli accidiosi e dei maldicenti. Mettiamo anche queste sul banco degli imputati e vedremo che sul banco degli imputati ci siamo anche noi. È il momento di unire severità e cordialità, e questo Grillo non lo capisce e non lo capisce neppure Travaglio. Non servono le adunate di massa. Serve costruire incontri tra poche persone che si parlino, si guardino negli occhi. Persone che discutono dei loro territori. La politica non è un concerto a reti unificate, non è la giostra delle dichiarazioni.”

    Aggiungerei che, visto il clima di questi tempi, sarebbe consigliabile che persino nelle relazioni quotidiane, prima di pronunciare o scrivere qualsiasi frase, si citasse “per precauzione” la formula “qualsiasi cosa dirà sarà usata contro di lei” (!), visto il grado di diffidenza e malfidenza circolanti – malattie dalla quale anch’io vorrei, ma non credo potermi considerare immune. Tentativi per guarire, una volta diagnosticato il morbo, potrebbero essere intrapresi.

    Comunque sul post di oggi, non avendo letto il libro di cui parli né visto la mostra, dovrei giustamente tacere su cose che non conosco. Mi sembra però che la frase “C’è nella fotografia una dimensione “intrusiva”, “violenta”, che “tende ad abolire l’esperienza, la separazione tra pubblico/privato e compie il primo passo verso la realizzazione di una controllabilità globale..”, oggi potrebbe essere utilizzata per descrivere le immagini e l’informazione televisiva, soprattutto i telegiornali che martellano sempre sugli stessi argomenti, tanto che viene spontaneo chiedersi se, piuttosto che fare semplice (e pessima) informazione, non fomentino invece paura e diffidenza.
    (milena)

  2. Secondo me l’immagine fotografica diventa anestetizzante quando è continuamente esposta,ripetuta,vista e rivista.Un’immagine,per quanto terribile,se vista dieci,venti o cento volte perde la sua funzione primaria,quella di scioccare,di far riflettere.La fotografia fissa dei momenti,degli attimi reali,che una volta fissati su pellicola non sono più reali,sono semplicemente delle rappresentazioni del reale,delle immagini.
    Non c’è dubbio,nella fotografia c’è una dimensione di intrusione e di violenza,tutte le volte che scatto su soggetti umani a me sconosciuti mi sento un pò un intruso.
    Nel 1999 a Rugovo,nel Kosovo,l’esercito yugoslavo trovò ed uccise 27 ribelli dell’Uck.Sui giornali di tutto il mondo si parlò dell’ennesima strage di civili albanesi.La Nato,dopo questo fatto,spinta sempre più dall’opinione pubblica decise per l’intervento armato.Fu grazie alla fotografia di un fotoreporter che si seppe che in realtà a Rugovo non vennero uccisi dei civili ma dei ribelli armati.
    Come dare torto a Milena quando dice che l’informazione televisiva è indecente? Ma appunto,il problema non sono le immagini ma l’uso che si fa di esse.

  3. Sempre a proposito di informazione televisiva, in questi giorni ho trovato (in un commento di Lello Voce al post La buona novella, del 25/9/2007, su Nazione Indiana), un’interessante sintesi che riporto:

    “I due canali, l’audio e il video, funzionano in sincrono, ma poi agiscono separatamente. Le immagini ipnotizzano, ma sono le voci quelle che indottrinano. La televisione aderisce alla struttura della nostra mente come un guanto, emisfero destro ed emisfero sinistro sono entrambi assolutamente coperti: alle immagini il compito di emozionare, alle voci quello, ben più decisivo, di realizzare la sintassi del discorso ideologico che produce entrambe, le emozioni e i pensieri, fino al punto di farci credere che ciò che vediamo al TG sia la verità e non, come in realtà è, solo l’immaginario del cameraman.”

    Sempre secondo lui, “la nostra non è affatto la società dell’occhio e delle immagini, (…) ma è invece la società dell’orecchio e dell’ascolto, dell’oralità e non dello sguardo. Come qualsiasi società di massa.”.
    Cita anche un saggio esplicito di Walter Benjamin sul rapporto tra la radio e lo sviluppo delle dittature di massa, ma che non sono riuscita a trovare.
    Però sull’argomento “opinione pubblica/opinione di massa”, ho trovato due saggi interessanti: “Opinione pubblica e opinione di massa” di Renato Parascandolo, e “Opinione pubblica e democrazia di massa” di Mauro Visentin, che sono appena scomparsi dal sito di Rai Educational, ma si possono reperire in http://forum.studenti.it/milano/219136-mass-media-conformismo-sociale.html.
    Milena.

  4. La fotografia non è intrusione ,è testimonianza. Tanto più importante quanto più scioccante. La malvagità dell’OSCURO che servendosi di schiavi resi tali da passioni abbrutenti tende ad addormentare lo spirito dell’uomo,viene stoppata (ED è già molto)
    dal lavoro del fotografo che quasi mai ha solo per fine l’aspetto lucrativo ma è mosso principalmente dalla testimonianza,da un fuoco interno che con questo mezzo rivela all’uomo una parte di se stesso a seconda del soggetto scelto. Un’immagine vale mille parole. Vero è che la necessità del vivere quotidiano può anestetizzare (solo in parte) questa testimonianza,ma la continuità della testimonianza,la continua “levata di scudi” degli onesti lascia traccia profonda nell’animo come le rughe della sofferenza sul volto degli uomini. Le osservazioni del relatore sulla comunicazione
    fra le persone è tragicamente vero,ricercarne le motivazioni è opportuno e istruttivo anche per noi stessi che ci ammantiamo a volte con paludamenti sacri senza averne diritto. Marx ha saputo mettere in prosa le ragioni di siffatto comportamento seguito
    da altri non meno capaci ma forse più elegiaci o moralisti. Secondo me manca la civiltà della compassione dell’umiltà dell’oggettività. Avete visto almeno una volta un minatore mentre esce alla luce del sole o un lavoratore che esce dalle sentine di una petroliera? Può essere molto istruttivo.

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