Occidente lisergico

Non ho ascoltato/letto molto in questi giorni su quel che va accadendo di nuovo sul fronte russo (che andrebbe esteso al fronte russo-asiatico).
Le poche cose che ho occhieggiato del solito blocco di potere mainstream confermano la narrazione propagandistica cui assistiamo da oltre due anni, con un elemento però di ulteriore imbarazzo e rincretinimento: o pensano che tutti i cittadini siano ormai ridotti a delle amebe non pensanti (e mi scuso con le amebe), o sono ormai alla conclamata disperazione, col risultato di dirsela e raccontarsela in modo del tutto autoreferenziale.
Qualche analista sano di mente però c’è ancora. Prendo spunto da una videoanalisi di Giacomo Gabellini per fissare qualche punto.

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Guerra e conflitto sociale

Il governo francese ritiene ormai la Russia il nemico numero uno. Se ancora si usasse quell’antica formula, il suo ambasciatore avrebbe già inviato al proprio omologo la relativa dichiarazione di guerra.
Molto interessante, a tal proposito, quel che il ministro dell’interno dice sul primato russo nelle ingerenze straniere: la Russia sarebbe oggi il primo nemico ”nella guerra informativa, di aggressività, sul territorio” della Francia. Questo discorso sulla “guerra ibrida” e sulla capacità di condizionamento da parte della propaganda russa dell’opinione pubblica europea – evidentemente un po’ scema ed infantile – sta subendo una pericolosa accelerazione.
In sostanza la Russia avrebbe ormai invaso virtualmente l’Europa, e dunque è bene che ci si prepari ad una guerra (che non potrà però essere simmetrica, visto che – chiarissimo il sottotesto – non essendo la Russia una democrazia, sarebbe impossibile penetrare in casa loro come loro fanno in casa nostra).
Ma al di là di questo livello dell’ormai battente propaganda di guerra (con quotidiane dichiarazioni – oggi, ad esempio, della Lituania – sull’eventualità di inviare truppe a Kiev), quel che dovrebbe preoccuparci di più è la ricaduta interna, eminentemente sociale, di questa deriva. Le attività di ingerenza russa, secondo i servizi segreti francesi “hanno generalmente l’obiettivo di amplificare i dissensi e le fratture interne della società”, sfruttando qualsiasi tipo di tematica, dalla riforma delle pensioni alle prese di posizione nel conflitto israelo-palestinese o alla denigrazione dei Giochi Olimpici.
Il passo successivo è automatico: ogni forma di conflitto sociale, di dissenso o di diserzione verrà letto come sospetto, una sorta di intelligenza col nemico e, quindi, di tradimento.

«Non solo i conflitti cessano quando le guerre iniziano (la belligeranza impone il divieto alle normali vicende della vita quotidiana), ma le guerre iniziano quando i conflitti cessano. L’antimilitarismo, allora, si trova a casa propria solo dove è data la condizione del conflitto sociale. In ciò anche, ed essenzialmente, si distingue dal pacifismo». (Franco Crespi, Appunti per l’antimilitarismo)

Cosa faresti se fossi vivo?

Occorre dire qualcosa su questo giovane americano – Aaron Bushnell – che domenica scorsa si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington.
Innanzitutto per contrastare il vergognoso silenzio – una studiata diminuzione e psichiatrizzazione dell’evento – da parte dei media e del potere. Basti paragonarlo con lo spazio dato a Navalny, giusto per fare un esempio recente.
Ma è tale la potenza del gesto – un ragazzo si dà fuoco, grida diverse volte Free Palestine, lo grida anche quando è già avvolto dalle fiamme e urla per il dolore – che difficilmente potrà essere confinato nell’insignificanza. O nella logica emergenziale – come subito, mentre si svolgeva, è stato classificato dalla pistola puntata dall’agente: un’arma puntata su un morente in fiamme, che già ci dice tutto della follia nella quale siamo immersi.
Aaron accompagna il gesto con una tesi semplice ma forte come un pugno nello stomaco: “cosa faresti se fossi vivo durante…” – cioè, come puoi concepire la tua vita all’interno di un mondo che consente che ne venga negata l’essenza? Come puoi continuare a vivere normalmente accanto all’orrore di quel che accade?
Questo appello estremo – il più estremo che si possa dare in un’esistenza individuale – ci interroga tutti.
Aaron – da quel che si può leggere nelle testimonianze in rete, nelle interviste agli amici – era molto probabilmente un cristiano anarchico, un idealista dai principi rocciosi, qualcuno lo descrive come la persona “kindest, gentles e silliest” che avesse mai conosciuto – l’anima più gentile e sciocca.
Un puro e un folle, sicuramente non catalogabile secondo gli schemi correnti della società egocentrica e narcisista a cui apparteneva (era oltretutto un aviere ed ingegnere informatico, con un brillante futuro in vista, sempre secondo quei canoni).
Ma è piuttosto inutile provare a scavare nella mente di Aaron. Il suo gesto e le sue ultime parole dicono già tutto quel che c’è da dire. E da fare. O da non fare.
Un movimento collettivo che voglia disfare un mondo ingiusto non può volere che altri Aaron si immolino. Ma nemmeno che il conto dei 30000 di Gaza continui a salire giorno dopo giorno.
Possiamo infine leggerlo così: un giovane militare occidentale si dà fuoco perché nella parte di mondo colonizzata e militarizzata avverte un’ingiustizia intollerabile, che lo lacera nell’intimo: rilanciamo rabbiosamente il gesto e l’immagine di questo cortocircuito contro i signori della guerra che ci stanno conducendo nel baratro.

Che fare?

Escalare/de-escalare, questa ormai la dialettica nella quale siamo impigliati – ma la macchina della guerra, che struttura e plasma il mondo, sta oliando le sue ruote e pare ormai inarrestabile.
La guerra si irradia dalla kraina che vede fronteggiarsi da un decennio una Russia revanchista e una Nato in espansione (e che nei prossimi mesi si mobiliterà per una esercitazione in grande stile).
La guerra si irradia da Gaza e dalla mai risolta questione palestinese a tutto il Medio Oriente – ed è il regime talebano afghano che paradossalmente invita le potenze regionali a darsi una calmata. Mentre in tutta l’area gli infiniti microconflitti si rinfocolano.
Anche in estremo oriente soffiano venti di guerra, da Taiwan alle due Coree (anche da quelle parti si fronteggiano esercitazioni ed esibizioni muscolari).
Due vecchi bianchi rincoglioniti, entrambi pericolosi, si contenderanno il trono dell’Impero americano – il maledetto ingombrante impero che non vuol cedere al destino della decadenza.
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Le parole del 2023

La prima che mi viene in mente, inevitabilmente, è GUERRA.
La guerra non è mai scomparsa dalla scena, è presente e sempre incombente nelle relazioni umane, anche quando non si vede. Ma due guerre di questa portata – la guerra ucraina (dietro cui c’è quella tra Russia e Occidente) incancrenita, e la guerra israeliano-palestinese mai risolta – ci dicono che le relazioni internazionali stanno subendo una regressione pericolosa: non che in passato non fossero i rapporti di forza a dominare, ma per lo meno era stata costruita un’impalcatura ideologica, giuridica e dialogica, un consesso in cui si tentava di ragionare, mediare, venire a patti. Ora sappiamo che era puro teatro. La scena è nuda. Trasimaco impera.

C’è poi CLIMA. Sulla faglia di questa emergenza si sta costruendo un nuovo gioco globale in cui i fanatismi, gli interessi contrapposti e il capitalismo ridipinto di verde si vanno affrontando, spargendo fumo tutt’intorno. Occorre quindi essere chiari: non c’è una transizione ad un sistema sostenibile senza l’uscita dal Capitale – o, per lo meno, senza l’uscita da un sistema che non prevede l’autonomia del politico nei confronti dell’economico, del pubblico rispetto al privato. Senza un Noi che prevalga sull’Io.

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Il sumud di Heba Zagout

(condivido da un amico; a due mesi dall’inizio della nuova Naqba)

È uno degli ultimi dipinti della talentuosa pittrice ghazawi Heba Zagout. Un animo dolce e gentile, epitome del sumud palestinese, la pazienza e la forza nella sopportazione. Nelle sue opere tutta la luce, i colori e la dolcezza della terra natale, e la nostalgia della separazione. «Mia zia Alia ci radunava e ci raccontava della casa del nonno, piena di amore e vita, degli aranceti, della raccolta delle olive. Mentre narrava i suoi occhi si illuminavano, e questa luce la imprimo nelle mie opere».
Uno dei primi bombardamenti israeliani sulla striscia ha spazzato via Heba, il suo talento e la sua famiglia. L’ultimo messaggio all’amico Dan Kovalik: «Sono seduta con i miei bambini. Bombardano. Ho paura».
14 ottobre 2023

Occhi

Nella parte quarta di Kaputt di Curzio Malaparte – quella intitolata agli Uccelli – ci sono alcune pagine in cui si parla di occhi. Il XII capitolo si intitola ‘L’occhio di vetro’, e si chiude col racconto di un episodio della resistenza russa contro l’invasione nazista, dove un villaggio viene distrutto e i partigiani tutti fucilati, senonché mentre la colonna dei tedeschi si allontana si odono alcuni colpi di fucile: un’ombra emerge dal fumo e si scopre che si tratta di un ragazzo di non più di dieci anni – Ein Kind!
L’ufficiale tedesco, dopo avergli chiesto perché stesse sparando – Lo sai già, perché me lo domandi? risponde il ragazzo – ordina di fucilarlo, ma poi ci ripensa.
Io non faccio la guerra ai bambini, dice, e mostra al ragazzo gli occhi, dicendogli che lo avrebbe risparmiato se avesse indovinato quale dei due era l’occhio di vetro.
L’occhio sinistro, risponde il ragazzo. Come hai fatto a indovinare? gli chiede l’ufficiale. Perché dei due è l’unico che abbia qualcosa di umano.

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La giustizia di Trasimaco

Continuo a sentire giudizi tagliati di netto con l’accetta sulla differenza “abissale” tra la barbarie di Hamas e la reazione di Israele.
Si sostiene cioè – dando ragione alle tesi del governo israeliano e di Netanyahu – che non è possibile fare una comparazione tra i civili sgozzati, torturati, rapiti da Hamas il 7 ottobre e i civili palestinesi massacrati nelle settimane successive dall’esercito israeliano. Sbriciolare i palazzi o colpire gli ospedali sarebbero atti più “civili” che mozzare la testa ai neonati: certo, fa più impressione visualizzare una scena come questa, piuttosto che contabilizzare migliaia di corpi sotto le macerie. Qualcuno arriva a dire che i palestinesi in fin dei conti vengono uccisi per mano di Hamas, che li usa come scudi umani.
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Ghetti e topi, da Varsavia a Gaza

«Muore tutto ciò che l’Europa ha di nobile, di gentile, di puro».

Ho iniziato a leggere questo romanzo “crudele” di Curzio Malaparte, di cui la guerra, come dichiarato dallo stesso autore, costituisce il “paesaggio”, perché sollecitato da un testo filosofico sul rapporto umano-animale, e incuriosito dal fatto che a scandire la partizione siano proprio gli animali – cavalli, topi, cani, uccelli, renne, mosche.
In una scena della prima parte, assistiamo all’«orrendo e meraviglioso spettacolo» dei cavalli delle truppe sovietiche, in fuga per un incendio verso il lago finlandese di Làgoda, che in una sola notte – complice il primo vento invernale – vengono immobilizzati dal gelo e resteranno intrappolati nel ghiaccio con le teste emerse, su cui ci si può mettere a cavalcioni, fino alla primavera, quando le loro statue torneranno a sciogliersi in corpi ben presto maleodoranti…

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Like pòlemos

Più sale il conto dei morti civili a Gaza – siamo a 6517, 704 solo nelle ultime 24 ore, di cui 305 bambini – più il capitale* dell’empatia nei confronti di Israele si assottiglia.
Le dichiarazioni del segretario dell’ONU Guterrez, che giustamente ricorda come l’assalto di Hamas non sia spuntato come un fungo nella notte, la posizione di Erdogan che ritiene i “terroristi” di Hamas dei guerriglieri liberatori, per non parlare delle masse arabe (ma anche europee) in fermento – sono chiari segnali di quell’assottigliamento.
Se quella oscena conta dei morti continuerà a salire, in assenza di un’opera di pressione internazionale (o di un nuovo fronte interno al mondo palestinese) – gli unici rappresentanti della resistenza palestinese avranno i colori e le bandiere di Hamas, Hezbollah, Jihad. L’Occidente (e con esso Israele) dirà che è il “male”, ma agli occhi del “resto del mondo” l’imperatore che si mostra con due pesi e due misure apparirà nudo, e quella forma di resistenza legittima: ciò che i dominatori del mondo nominano come “terrorismo”  – e che non hanno certo lesinato ad utilizzare – non è l’universale.

[*orribile il termine “capitale”, ma questa è la forma infernale del mondo così come si va mostrando in quest’epoca dai tratti surreali, dove persino la guerra – l’antico pòlemos – è diventata uno spazio nel quale tifare con un like]