Sto cercando di decifrare questa immagine, scattata durante i funerali pubblici per le vittime del crollo del ponte di Genova. Credo sia importante decodificarne il significato, anche se può sembrare marginale rispetto al compito primario di interrogarsi sul perché periodicamente questo scellerato paese debba fare i conti con le sue fragilità e debolezze endemiche: geologiche, strutturali ed infrastrutturali, economiche, istituzionali, culturali… l’elenco potrebbe continuare a lungo, a conferma di quel che un tempo si diceva di un’Italia insieme pre-moderna e post-moderna (e forse mai modernizzata davvero).
C’è qui una relazione immediata (o apparentemente tale) tra il sovrano e il suddito, che vengono amorevolmente ritratti insieme, laddove un tempo i potenti si facevano ritrarre in perfetta solitudine, a distanze siderali dal popolino (o dal popolaccio) – che in genere ricambiava detestandoli. Perfetta rappresentazione di quel che oggi viene definito “populismo”, peraltro quasi sempre con una certa sufficienza e approssimazione analitica.
C’è il contesto tragico di un funerale di stato (dimezzato) dove suonano stonatissimi gli applausi e scattano imbarazzanti i selfie, e che mostra senza dubbio alcuni aspetti volgari della società, che non sono certo nuovi nell’antropologia del Belpaese (il cinema ce ne ha dato una lunga e preziosa autorappresentazione, non messa a frutto come si sarebbe dovuto).
C’è il cortocircuito digitale-reale: quell’atto insieme spontaneo e straniante, quasi metafisico, nel bel mezzo di un disastro realissimo, è destinato essenzialmente al mondo dei social, che però, con la sua invasività e ridondanza, lo fa rimbalzare sulla realtà, producendo una conferma di quel che pensa e sente per lo più la pancia del popolo, che è onda apparentemente inarrestabile.
C’è anche l’allusione (autoindotta dal mezzo) dell’impossibilità di fissare cosa sia vero e cosa falso: non appena questa foto ha cominciato a circolare in rete è stata subito definita una fake news, per essere poi confermata e smentita in un autoavvitamento del messaggio, che ha finito per svuotarne il senso e per non avere più nessuna importanza (o averne troppa, a seconda dei punti di vista): ma ciò che importa è, di nuovo, la pancia del paese, che sulle cosiddette “bufale” sta ricostruendo un proprio discorso pubblico alternativo, che poggia però su un disagio realissimo, tutt’altro che mitico.
E infine, al di là di tutto c’è lo sgomento – per lo meno ci dovrebbe essere, in chi osserva la scena.
Ciò nonostante, all’impressione di volgarità del potere e di pronità dei sudditi plaudenti, sono convinto debba seguire una rigorosa presa di coscienza da parte di (noi) animali politici – di sinistra, intellettuali, critici, antagonisti, socialsovranisti, poco m’importa delle etichette o delle categorie di appartenenza.
Intendo dire che sentirsi migliori di quella giovane donna del popolo che si fa il selfie con Salvini, è un atteggiamento inutilmente snob, stupido e perdente da parte di chi si definisce “di sinistra”. Essere di sinistra – lo si è forse dimenticato – significa proprio stare accanto a quella donna, comprenderne le ragioni, cercare di allontanarla da quell’apprendista stregone (furbo e pericoloso) che si sta abbeverando alle ansie e alle paure del paese come un famelico vampiro, riavvicinarla al linguaggio della politica e della cultura, e alle ragioni per cui la sinistra è nata: “elevare” il popolo, fare in modo che diventi cosciente e protagonista delle sue scelte – classe “dirigente”, non “dominante”, come usava dire il buon Procacci per discriminare la sinistra dalla destra storiche.
Certo, esistono anche delle alternative: attendere imbelli e passivi che la nottata passi, oppure limitarsi a berciare scandalizzati sui social e urlare invano “al lupo! al lupo!” – o ritirarsi in campagna, come diceva Gaber sconsolato e come forse a breve finirò per fare anch’io…