Poesia non poesia

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«I vari scrittori, italiani e non, i quali hanno strillato che Dylan non fa parte della letteratura, dovrebbero chiedersi prima di tutto se ne fanno parte loro, perché pubblicare un libro, o anche molti libri, significa essere dei lavoranti della scrittura, il che va bene, ma non significa per forza far parte di ciò che la letteratura decide di essere giorno per giorno. Vale ancora di più per la poesia. Che per ammontare a qualcosa deve uscire dalla pagina, deve acquisire una voce» (Alessandro Carrera)

«Nel mondo della merce, dello spettacolo e del pensiero unico… chi perde più tempo a leggere, e a leggere versi? … C’era proprio bisogno di correre in soccorso delle star? Sarebbe bastato aprire altre sezioni del Nobel, e  nel frattempo lasciare sopravvivere quella parola fragile, “diversamente musicale”, che vive unicamente sulla pagina» (Valerio Magrelli)

Al di là delle polemiche sterili, della faciloneria delle sparate social e di qualche mal di pancia “di categoria”, il Nobel a Bob Dylan, e la straordinaria contingenza della sua assegnazione nel medesimo giorno della morte di un altro premiato controverso quale fu a suo tempo Dario Fo – è interessantissimo proprio per quanto concerne lo statuto della poesia e della letteratura, che cosa esse siano (o siano diventate, vista la loro ovvia cangiante storicità), quale funzione sociale rivestono, quale il loro significato.
È un dibattito inevitabilmente perenne e parallelo alla comparsa (e talvolta alla scomparsa) delle arti, ma che in questo passaggio epocale così oscuro (specie perché non si ha alcuna idea di dove porterà) è forse più urgente che in altre epoche.
Soprattutto perché il secolo da cui siamo da poco usciti (ma forse non ancora del tutto) ha posto con grande forza la questione della funzione sociale dell’arte, proprio perché si è trattato del secolo per eccellenza delle masse e della loro mobilitazione – guerra, rivoluzione, scolarizzazione, consumi, pericolo di estinzione – e dell’inevitabile conflitto di ciò che un tempo era ritenuto alto e basso nell’ambito della cultura, del gusto, dell’estetica. La seconda parte del Novecento è stata essenzialmente pop – anche se in questo termine ci può entrare tutto e niente – e inevitabilmente le arti, la cultura, la filosofia si sono misurate con questa irruzione, con questo improvviso affollamento della scena, col conseguente rimescolarsi – ed ibridarsi – delle carte.
Che cos’è oggi poesia, che cosa letteratura, arte, bellezza? Molto probabilmente ci sarà un affollamento di massa anche nella risposta a queste domande.

Ma non voglio imbarcarmi in questa temibilissima diatriba, non ne ho né il desiderio né soprattutto le competenze, e poi credo sia inutile riesumare l’antica presunzione crociana di decidere d’autorità che cos’è poesia e che cosa non lo è (credo che Croce butterebbe ammare gran parte della poesia e della letteratura contemporanea, Szymborska e McCarthy compresi, mentre guarderebbe con disgusto alla sola ipotesi di prendere in considerazione le “canzonette”, persino le più “espressive”).
Mi interessa molto di più sottolineare un aspetto che i due “imputati” nel processo in corso – pur diversissimi tra loro per stile, storia, provenienza e risultati artistici – hanno in comune: la loro arte ha essenzialmente a che fare, oltre che col popolo e col basso, soprattutto con il corpo e con la voce. La loro opera letteraria (e nel caso di Dylan soprattutto poetica, ma tenderei a non fare più nemmeno distinzione tra poesia e prosa) è narrazione che si fa suono, voce, corpo di un’epoca, attraverso il loro suono, la loro voce, il loro corpo.
Non è certo una novità – le origini della poesia (ma anche della filosofia) hanno a che fare con l’oralità, con il faccia a faccia, con la totalità del gesto e del corpo. La scrittura, la memoria, la formalizzazione (e la catalogazione: poesia/non poesia, generi, alto/basso) vengono solo dopo, a cose fatte. Prima c’era un narratore che faceva risuonare nel proprio corpo le passioni (e talvolta la rabbia) di un’epoca, che le dava corpo e voce, forma, senso, persino una prospettiva futura – questo siamo, ma altro potremmo essere! (valenza etica, anzi eticissima dell’arte, come recentemente sottolineato da Leonardo Caffo).
Ecco, io credo che Dario Fo e Bob Dylan siano due rappresentanti di questa categoria di aedi contemporanei, voci e corpi prima ancora che scrittura (occorre a tal proposito non dimenticare che la scrittura e la tradizione hanno sempre a che fare con il potere, che le decidono e le calano dell’alto – una lingua, una forma per tutti – laddove i corpi e le voci che vengono “dal basso” mettono in discussione ogni gerarchia ed oppongono le proprie “forme di vita” plurali e molteplici). Tale contrapposizione mi pare ben rappresentata dalle citazioni con cui ho aperto il post, con l’alternativa secca dell’uscire o del vivere unicamente sulla pagina.
Beninteso: questo non vuol dire che Dylan sia meglio di Roth o DeLillo o che i giudici del Nobel siano infallibili, ma nemmeno che ci sia qualcuno sul pianeta che possa attribuirsi il diritto esclusivo di dire una volta per tutte che cosa è poesia e che cosa non lo è, che cosa sia arte e che cosa non lo sia – che cos’è puro e che cos’è impuro.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

12 pensieri riguardo “Poesia non poesia”

  1. Diceva Pietro Nenni “c’è sempre qualcuno più puro che ti epura!” ( o mi/ci epura – eh eh )
    Dunque come sarebbe? Prima gli alti epuravano i bassi, ora i bassi epurano gli alti? Mah. L’epurazione si è semplicemente rovesciata. Non so, come una sorta di rivincita?
    Però non vedo come la produzione di Dylan possa essere considerata bassa poesia – sempre che si possa decidere una volta per tutte e per tutti cosa è alto e cosa è basso e rispetto a cosa; ma tanto meno lo può decidere la giuria che assegna i premi nobel. Anche un premio è una scelta particolare, non universale. Piuttosto a me sembra che senza l’industria discografica non sarebbe diventato così popolare; quindi forse il fenomeno ricade in pieno nell’affermazione della riproducibilità delle opere d’arte – qualsiasi cosa decidiamo di considerare opera d’arte. A questo punto non c’entra tanto il soggetto o l’oggetto, ma il mezzo di distribuzione di massa. Il focus è più sulla quantità che sulla qualità. Perciò dico che è stato fin troppo facile affibbiare il premio nobel a un autore così arcistranoto. Non ci trovo nulla di innovativo. Se fossi al posto di Dylan, credo che mi sentirei non poco in imbarazzo. Ma come, direi, ho fatto tutta la vita a criticare il potere le gerarchie e l’autorità, e adesso m’affibbiano un premio d’autorità. Mmmm… ammetterai che qualche contraddizione c’è…

  2. di fatti mi sa che sarà un premiato piuttosto riottoso, intanto mi pare che ancora non si sia fatto vivo, pure sul suo sito ufficiale non vedo traccia dell’annuncio, magari se ne sta beatamente fregando…

  3. Oppure il consiglio di amministrazione non si è ancora riunito per deliberare: stanno ancora valutando i pro e i contro. Lo renderà ancora più popolare accettare il premio o meno? Sembra che l’unico ad aver finora rifiutato il premio sia stato Sartre (e mal gliene incolse ai suoi debitori, pare). Sto un po’ scherzando e spero anche non sia così, ma a grandi linee pare improbabile che un uomo da solo possa gestire un ingente patrimonio, la gestione dell’immagine e delle relazioni pubbliche, e nello stesso tempo continuare a fare l’artista. Capirai che a quei livelli la gestione può diventare esattamente come una gestione d’impresa, in cui molti e molti e molti sono coinvolti. Magari non è il caso di Dylan, e infatti dico che non lo so. Ma ho paura che in genere ci costruiamo delle idee un po’ romantiche su come stanno le cose dietro le quinte. Mi riferisco alla tendenza abbastanza diffusa ad idealizzare i personaggi pubblici. Secondo me i corpi e le voci che contano sono quelle che vivono insieme a me, nel mio quotidiano, esattamente come nel quotidiano di chiunque. Mentre le immagini dei palcoscenici sono e restano proiezioni.

    Comunque, di Dylan non sapevo neppure che fosse ancora vivo. L’ultima cosa che ricordo di lui, fu quando cantò al congresso eucaristico a Bologna nel 1997. Anche quella fu una scelta molto popolare, da parte della congrega ecclesiastica, quella volta. Quindi sono andata a leggermi qualcosa su di lui in wikipedia, e ho scoperto che ha vinto nel corso della sua carriera una caterva di premi e onorificenze, compreso la medaglia presidenziale della libertà, assegnatagli nel 2012 dal presidente Obama – premio nobel per la pace! Badabene. Quindi diciamo che con il premio nobel per la letteratura, Dylan fa l’en plein. Wow. Gli mancava solo quello.

    Ovviamente, qualsiasi premio può provocare soddisfazione in qualcuno e scetticismo o magari rifiuto in altri. Impossibile che siamo tutti concordi su ogni premio assegnato, come su qualsiasi altra cosa. Un premio è un fatto, e ne prendiamo atto, mentre le sensazioni, come le considerazioni e le interpretazioni successive saranno molteplici. Alla fine è abbastanza assurdo credere che qualcuno possa avere più ragione di qualcun altro. Siamo nel campo dell’opinione, e in quella restiamo. Se ne può parlare. Tu mi spieghi il tuo punto di vista e le tue ragioni, e io ti spiego il mio. Poi magari il campo di entrambi si allarga un pochino.
    Ma non possiamo credere di doverci uniformare ad un pensiero unico, e solo quello. O che siccome ciò che sento e penso è meno popolare, ho meno diritto di esprimere la mia opinione, o tu la tua.

    Mi piace questo argomento, perché in fondo è abbastanza neutro. Voglio dire che non è come quando si parla di politica o religione.
    È un argomento abbastanza leggero, eppure entrano in gioco sentimenti ed emozioni, come sempre.
    Ho notato, sia in me che in altre persone, che quando è stato proclamato il vincitore (the winner is…), c’è stata una reazione immediata. La prima cosa che emerge è l’emozione. Il che non significa che l’emozione sia irrazionale, ma che è la spontanea espressione psicofisica di credenze e contenuti talvolta inconsci. Che poi si possono analizzare, o razionalizzare. O correggere, perché no.
    Ad esempio, un mio amico scrittore se n’è uscito con un cubitale “ma vaffanculo”; mentre io sentivo soltanto come qualcosa che stride. Sarà capitato anche a te…di sentire qualcosa che stride – perché se non ti è capitato non puoi sapere di cosa parlo. Ma se ti è capitato, allora sai bene a cosa mi riferisco. Orbene, la stessa cosa era capitata anche a me. Sai com’è, che quando una cosa stride, stride. Già.
    La mia prima impressione. Forse questo premio a Dylan mi è apparso quasi come un premio di consolazione, trenta, quaranta, cinquant’anni dopo, quando è da un pezzo che la nostra generazione ha perso. Quindi sai, pure a me chemmenefrega del premio a Dylan? E chissà se alla fin fine non sia meglio tenersi cara la perdita, anziché la vittoria. Che forse dalla perdita c’è ancora qualcosa da comprendere, dalla vittoria, mmmm… non so.
    Poi, ovviamente, l’anno prossimo ci sarà un altro vincitore, e chi vivrà vedrà. Ma per come vanno le cose, dopo breve riflessione sarei quasi dell’idea di fare il tifo per Zerocalcare. Tutto sommato credo che sarebbe, sì, una scelta più innovativa. 🙂
    (Mentre su Dario Fo, nulla da eccepire: il nobel a Fo è stato un colpo di genio. A mio parere.)

  4. mah, io più banalmente non pensavo né alla generazione di Dylan né a vittorie o sconfitte, ma che quelle canzoni sono poesie, punto. Certo lo sono anche quelle di Cohen, De André, Brassens e probabilmente di molti altri in giro per il mondo che non conosciamo. Si sarebbe potuto dare un premio alla canzone d’autore, che non è un’arte minore. Ecco, io lo interpreto così.

  5. beh, ma questa non è una novità. Non è da ieri che nelle antologie compaiono i testi di De Andrè, ad esempio, e nelle antologie scolastiche anche i fumetti (magari non Topolino). No, guarda, non è questo il problema, almeno non per me. Cercavo di capire il motivo per cui hanno dato il nobel a Dylan, ora, in questo momento. La trovavo una scelta spiazzante, c’era qualcosa che mi restava oscuro. E poi anche il dibattersi tra particolarismi, anche questa non mi sembra un’opzione eclatante.
    In questi giorni ho letto vari articoli, ascoltato le più svariate opinioni. Poi ieri sera, in un articolo su Doppiozero (che ha pubblicato sia un articolo pro che uno contro) ho letto un commento di un tale Lanfranco Scalvenzi (a me sconosciuto) che ha gettato luce al cuore del problema. Soprattutto che il nobel non va inteso sotto l’aspetto “personale” o un premio alla carriera, perché in tal senso guarderemmo il dito, mentre ci stanno indicando la luna.
    Sostiene che il Nobel avrebbe sì a che fare con la cultura, ma che le sue finalità sono indubbiamente politiche. E che questo Nobel (riassumo in parole povere) vorrebbe significare: questa è l’America che ci piaceva, che ci piace, che vorremmo ritrovare.
    E anche se … “E’ tardi, molto tardi, ma quelli del Nobel ci segnalano che la generazione degli anni ’60, tanto bistrattata, tanto combattuta, ridicolizzata a suo tempo rappresenta ora il meglio in occidente del secondo novecento e può ancora dirci qualcosa sul nostro futuro, se abbiamo il coraggio e l’intelligenza di uscire dagli schemi precostituiti”.

    Bon, lo ricopio per intero qui sotto. Credo che ti piacerà. E questo è il link: http://www.doppiozero.com/materiali/il-nobel-bob-dylan

  6. Una diabolica coincidenza la scomparsa di Dario Fo, contestatissimo (in patria) premio Nobel per la letteratura e il premio di quest’anno
    affidato a Bob Dylan. Molto eccentrici ambedue, ma c’è ancora un sacco di gente che non ha ancora capito che il Nobel non viene distribuito da un’accolita di parrucconi puristi di diverse discipline accademiche. Se fosse quella cosa lì non servirebbe a niente: sarebbe
    una sorta di gigantesco X factor alla carriera che farebbe emergere il peggio della concorrenzialità e della vanità mondiale. Il Nobel ha certo a che fare con la cultura, ma le sue finalità sono indubbiamente politiche. L’America aspettava da tempo un suo Nobel per la letteratura e aveva in mente i nomi che avevo in mente anch’io, da
    Philip Roth a Don Delillo, fino alla Johan Robinson (tutta grande letteratura, lo testimonia anche Harold Bloom). Ma un po’ tutti hanno dimenticato che l’ultimo Nobel americano per la letteratura venne
    affidato a Toni Morrison, una ventina d’anni fa: una scrittrice non proprio di altissimo livello, ma di origine afro, proprio nel momento in cui si passava dalla lotta per i diritti civili delle minoranze in America, alla conquista di porzioni di potere, un processo che
    culminerà più tardi con l’elezione di Obama alla Casa Bianca. Posso fare anche un altro esempio che riguarda l’Europa, trascurando il clima di guerra civile che si scatenò su Fo e la denigrazione alla quale venne sottoposto nel nostro Paese, come sempre in prima linea tra gli imbecilli mondiali. Si tratta di qualche anno fa, quando il premio venne dato a Herta Mueller, in rappresentanza delle minoranze linguistiche europee bistrattate dalle guerre e dal continuo ridisegno
    dei confini nazionali, e venne trascurato del tutto uno dei più grandi scrittori europei che abbiamo, Peter Handke, solo perché durante il conflitto interjugoslavo, proprio in un cattivo momento, cioè mentre i
    serbi di Bosnia tenevano sotto assedio Sarajevo, osò dire che anche i Serbi erano sotto assedio in Kossovo, ad opera dei musulmani albanesi, cioè richiamava tutta l’Europa ad un esame critico e approfondito
    delle proprie contraddizioni al di là delle ideologie. Si, i criteri di selezione non sono puramente letterari e, laddove si parla di scienze umane, non sono nemmeno puramente accademici, ma usano travalicare le discipline segnalando che la realtà va al di là delle
    nostre convenzioni. Quest’anno, tra l’altro, proprio per le ragioni politiche di cui dicevo poc’anzi, ma anche per l’alto pregio letterario delle loro opere, pensavo che fosse maturo un premio ad un israeliano da scegliere tra Amos Oz, Grossman, Yeoshua, ecc., tutti scrittori che,
    rischiando molto, all’interno del loro paese hanno sostenuto il disgraziato processo di pace finalizzato alla costruzione di due stati più o meno sullo stesso territorio. Invece ecco Bob Dylan, che stupisce anche me. Ma lo stupore mi obbliga a riflettere invece di
    lanciarmi in una campagna immediata di discussione. Perché Bob Dylan oggi, che non è nemmeno uno scrittore, ma un poeta si, certo, un poeta
    che ha saputo parlare in modo fortemente innovativo a più generazioni, dando loro voce e costituendo esempio, quando non era facile farlo. Mi sono fatto un’idea che mi piacerebbe approfondire nei prossimi giorni
    e credo che lo farò. L’Occidente sta attraversando una crisi profondissima dagli sbocchi molto incerti. Soprattutto l’America. Noi sottovalutiamo la carica di odio generato da frustrazione, pressapochismo culturale, presunzione, revanscismo, che accompagna la campagna elettorale di Trump, abbandonato persino da mezzo partito repubblicano (che teme ripercussioni negative sul Congresso e sul Senato). Ha le stesse matrici delle rivolte in Europa di tipo leghista, lepenista, neonazi, che diventano sempre più un fatto
    elettorale. Siamo soliti mettere questi movimenti sotto l’etichetta del populismo, perché trovano sempre qualche mezzo criminale che se ne mette a capo senza alcuna mediazione politica, solleticandone gli spiriti più belluini. Ecco, Bob Dylan, più o meno, è della stessa
    generazione dei Trump e, senza mettersi a capo di niente, ha saputo parlare e cantare il meglio di quanto si agitava nel corpaccione del popolo americano e di tutto l’occidente, recuperando valori positivi
    di quel popolo, quelli di Wudy Guhtrie, quelli dei beatnik che sondavano mimandola la bestialità delle periferie, del popolo jazz e degli spiritual, del country accogliente i mille popoli che arrivavano negli USA e costruivano una realtà unica nel mondo, la stessa professata da Walt Whitman e dalla sua opera poetica più grande, Leaves of Grass, il pacifismo della Costituzione americana che spingeva i ragazzi delle Università a rifiutare la coscrizione obbligatoria per il Viet-nam, che proclamava, e proclama, il diritto
    per tutti alla felicità. Oh, quella di Dylan non era solo letteratura per fortuna, ma era anche letteratura. E non era raffinata, ma era intesa da milioni di ragazzi che non si accontentavano di ascoltare, ma agivano, si mettevano in gioco. Del resto non diceva forse una sua
    canzone del 1962, ben prima del ’68 quindi: ‘….. Quante strade deve percorrere un uomo prima che lo si possa definire un uomo? … La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento, la risposta sta soffiando nel vento …’ . E un’altra ‘ … Venite signori della guerra, voi che costruite le armi, voi che costruite gli aeroplani che
    danno la morte … Voglio solo che sappiate che posso vedere attraverso le vostre maschere …’. E un’altra ancora ‘ … Oh cos’hai visto figlio mio adorato? Ho visto un neonato circondato da un branco di lupi selvaggi … E una pioggia terribile arriverà …’.
    Vedi? E’ tardi, molto tardi ormai e siamo passati attraverso l’edonismo reganiano, il nullismo tecnologico che sta impappinando la mente di miliardi di individui facendogli credere di essere in mezzo
    al mondo, abbiamo raggiunto la convinzione che non sono il lavoro e la fatica dello studio e della ricerca i motori del mondo, ma il piccolo cabotaggio della convenienza ai margini delle mense del capitale
    finanziario … E’ tardi, molto tardi, ma quelli del Nobel ci segnalano che la generazione degli anni ’60, tanto bistrattata, tanto combattuta, ridicolizzata a suo tempo rappresenta ora il meglio in occidente del secondo novecento e può ancora dirci qualcosa sul nostro
    futuro, se abbiamo il coraggio e l’intelligenza di uscire dagli schemi precostituiti (anche per ragioni di potere).
    Si, mi stupisce il Nobel a Dylan, come a suo tempo mi ha stupito quello a Fo.
    Però poi leggo una breve dichiarazione di Salman Rushdie (che da sempre rischia la vita) secondo la quale “Da Orfeo a Faiz, canzone e poesia sono sempre state intimamente legate. Bob Dylan è l’erede
    brillante della tradizione dei bardi”. Perché no?
    Lanfranco Scalvenzi

  7. È creazion’EvENTOpensantepoetante è in sé metaEvENTO dello spaziotemporaesserCi si dà al di là spaziotempora crea spaziotempora che non pensa ma è pensato EvENTOpensantepoetante dell’Essere eventua epievento del perché vi è del perché senzaPerché c’è creatio ex nihilontologico ontologicamEvENTOdal nulla’interpretEvENTO vi è’interEvENTO

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