Metafisica dello smartphone

perfetti-sconosciuti

Adoro i film che mettono in scena cene o tavole spiazzanti (da Festen a Fanny e Alexander, dal Fascino discreto della borghesia alla Grande abbuffata) – proprio perché si tratta del luogo più familiare che invece diventa il più perturbante, e spesso più atto a far emergere scomode verità.
Ecco perché inseguivo da tempo Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, che ho finalmente visto nel miglior contesto possibile, ovvero all’interno dell’autorevolissimo e storico cineforum di Legnano, con inevitabile dibattito finale.
E in effetti è un film che si presta molto alla discussione, ma che occorrerebbe rivedere più volte per coglierne i molteplici aspetti – non solo dovuti alla perfezione della sceneggiatura, alla bravura superlativa degli attori, ma soprattutto al concorso di temi scottanti e di grande “attualità” (parola che non mi è mai chiaro, però, che cosa designi di preciso). Al punto che la citazione del Sorpasso di Risi da parte del relatore, mi ha suggerito l’idea che – esattamente come quel film lo fu per gli anni ’60, gli anni del boom economico – questo film potrebbe essere rappresentativo della nostra epoca, quale commedia amarissima della malata società italiana in particolare, ma tendenzialmente di quella globale (lo conferma il fatto che verrà distribuito in oltre 30 paesi, compreso un inconsueto remake del cinema americano).
[Occorrerebbe qui richiamare l’attenzione sulla serietà della commedia, senza necessariamente scomodare Aristotele o i più grandi cineasti italiani, quale forma autorappresentativa tra le più efficaci dell’umano, funzionale ad una comprensione sottile ed acuta degli aspetti più reconditi della natura umana, soprattutto dei suoi vizi e delle relazioni sociali ed affettive nei quali ci si finisce per ingarbugliare]
Non voglio indugiare sugli aspetti tecnici, sui (tanti) riferimenti alla storia del cinema, sull’omaggio ad Antonioni, ed altre cose rilevate sapientemente dai partecipanti al dibattito. Vorrei invece soffermarmi di più sui contenuti, molti emersi ma altri sottaciuti o solo sfiorati.
Partendo da quello che ritengo l’asse principale della storia – ovvero la messa in scena medesima delle vite (più o meno gettate nell’insensatezza) di un’intera generazione (grosso modo i 40-50enni, dunque la mia, ma l’arco si può estendere a piacimento, tolti giovanissimi e vecchissimi) che si risolve proprio nella loro “messa in scena”, quasi una tautologia esistenziale, un’esibizione vuota di un vuoto narcisismo, maschere che recitano la socialità secondo copioni assegnati e dietro cui, com’è ovvio, si muovono le passioni (più o meno torbide), i lati oscuri, le identità segrete, l’inconfessabilità – ovvero gli umani in carne ed ossa, fragili, anzi “frangibili” come dice Marco Giallini sul finale.
Non a caso dalla scena spariscono del tutto i “valori” – essendo la famiglia, ed è chiaro fin dall’inizio, una farsa – e mai vengono citati Dio, la politica, la cultura, il vasto mondo, i progetti per il futuro o cose simili. La realtà, anzi, è così pesante che l’unica evasione sta nel mondo inconfessabile reso oggi possibile dalla tecnologia della comunicazione digitale.
E veniamo così allo strumento narrativo centrale – che non è solo l’elemento-pretesto per innescare la messa in scena e il gioco al massacro che essa comporta – ma simbolo metafisico della nostra epoca: lo smartphone, o telefono, o cellulare, o come lo si voglia chiamare – insomma la protesi che permette infinite proliferazioni di sé e fuori di sé, costruzioni di avatar e identità multiple, giochi relazionali fittizi e quant’altro. Una sorta di messa in scena parallela, dove si riversa una parte (spesso essenziale) di sé.
E qui c’è un paradosso da rilevare: se da una parte il gioco (al massacro) dei telefoni porta a svelare i segreti, a rilevare la parte nascosta di sé e dunque a smontare l’ipocrisia che domina la società (un vero e proprio gioco dei ruoli, un teatro delle maschere-persone) – e ciò parrebbe cosa buona e giusta; dall’altro – com’è emerso dal dibattito sul finale – vi è il pericolo, già denunciato da Byung-Chul Han, della “società della trasparenza totale”. Ovvero: rivelare se stessi agli altri (e spazzare via ipocrisie e insincerità) è certo elemento a prima vista positivo, ma l’eccessiva esposizione di sé, la “pornografia emotiva” è forse ancor più pericolosa del tradizionale gioco sociale delle ipocrisie incrociate – quello pirandelliano degli uno, nessuno e centomila, per intendersi. Per non parlare del continuo mutare della linea di demarcazione pubblico/privato e dei connessi parametri di pudore, riservatezza, interiorità, ecc.
La trasparenza totale – come tutti i paradisi in terra – diventa in realtà un incubo – e, nella sua versione digitale, un tecnoincubo. [Ne avevo parlato qui tempo fa, in forma di “apologia dell’opacità” ed anche qui, con riferimento al mito roussoiano della trasparenza]
In sostanza: mettere a nudo ogni cosa, svelare totalmente sé a gli altri (a tutti), e sapere reciprocamente tutto degli altri, è l’incubo panottico del controllo totale. Dunque, come se ne esce?

Il film si chiude, genialmente, con uno dei finali “da commedia” più riusciti di sempre, che ovviamente non svelo, ma che ci fa rimbalzare il dilemma: nascondere o rivelare? Fingere ed accomodare o andare a fondo di verità scomode? Opacità o trasparenza? Mettere in scena se stessi o la propria maschera? Ma poi, si è davvero qualcosa dietro la maschera? – ed ecco dunque il nodo dei nodi, forse la domanda sottesa a tutto il film: chi o che cosa siamo? – e la messa in scena è la risposta sviante, il non voler sistematicamente rispondere, proprio perché incastrati in ruoli sociali dati dall’esterno, come fossimo marionette o burattini eterodiretti. E difatti l’intero teatro di un ventennio di amicizie deflagra, quando sulla scena compare un altro nodo dei nodi – ovvero l’omosessualità dissimulata, maschera per antonomasia e precipitazione di tutto il sistema identitario (in particolare italiano e cattolico).
Vien da dire che strade intermedie dovrebbero pur esserci, che le relazioni sono faticose ma non sono mai così estremizzabili – tutto o niente, bianco o nero, tra identità nette e definite: in definitiva siamo tutti anime vaganti in chiaroscuro, limitate e (appunto) frangibili. E tale orizzontalità della condizione umana dovrebbe se non rallegrarci  – non c’è nulla da ridere, anche se nel film si ride per tre quarti del tempo – almeno consolarci.
Forse fare un passo indietro contemplativo (come di nuovo suggerisce un rinsavito Marco Giallini, uno dei pochi che sembra salvarsi) può aiutare: ma vale anche se hai accanto la persona più falsa ed ipocrita di tutta la scena, che oltretutto è una psicanalista? La perturbazione emotiva e l’arte dissimulatoria – ma anche il disagio per la civiltà – paiono non aver fine né fondo…

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

1 commento su “Metafisica dello smartphone”

  1. ciao ho letto il tuo post e sono riflessioni molto accurate , vorrei scrivere ,secondo mie riflessioni il ruolo di Valerio Mastrandrea ,(ok lui aveva qualcosa da nascondere )però quando si e trovato il problema di Lucio non ha detto ci siamo scambiati il telefono io e Battiston , anzi se fatto suo il problema e con qualche semplice domanda ha conosciuto meglio alcuni suoi amici d’infanzia

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