Lezione spinozista 8 – Sub specie aeternitatis

Philosophieren ist spinozieren
(G.W.F. Hegel)

Come farò a dire qualcosa di sensato sulla parte quinta dell’Etica?
C’è come una tensione sotterranea che corre in queste (peraltro non molte) pagine conclusive della grande opera di Spinoza, un voler riannodare tutti i fili, per farli convergere verso un esito unitario, che era poi anche il fuoco dell’inizio: quel Dio-sostanza da cui tutto era partito, contemplabile con un vero e proprio salto mortale ed attraverso una modalità inedita dello sguardo sulle cose e sul mondo – sub specie aeternitatis, nientemeno!
Com’è concepibile il punto di vista dell’eternità? Questo il nodo che Spinoza vuole qui sciogliere. Al che vien da chiedersi: che c’entra tutto questo discorso con quell’ampia parte dell’Etica che tratta di passioni, di corpi, di desideri, letizia, tristezza, e di tutte le forze che nel basso ventre della materia e della natura si agitano? Che rapporto possiamo mai avere – noi umani, animali tra gli animali, enti tra gli enti, modi transeunti e oscillanti dell’essere – con quella categoria altisonante che definiamo Eterno?

Come sempre la risposta (o meglio l’indizio per provare a rispondere) ci vengono dati lateralmente, in un qualche luogo del testo apparentemente secondario, magari uno scolio o un corollario, come ad esempio il seguente:

Ma si può obiettare che se intendiamo Dio come causa di tutte le cose, lo consideriamo, per ciò stesso, come causa della Tristezza. Ma a questo rispondo che, in quanto noi comprendiamo le cause della Tristezza, in tanto essa cessa di essere una passione, ossia cessa di essere Tristezza; e perciò, in quanto comprendiamo che Dio è causa della Tristezza, noi ci rallegriamo. (Scolio prop. XVIII)

Al di là della strana metamorfosi della tristezza che si capovolge in allegrezza, questo passo è cruciale per altri due motivi: intanto ci dà alcune indicazioni sulla risoluzione preventiva della teodicea – nel senso che il problema della teodicea, cioè della giustificazione del male nel mondo, non si pone nemmeno, poiché a rigore il male (per lo meno in assoluto) non esiste proprio. In secondo luogo ci introduce al giusto modo di intendere la conoscenza e il suo procedere per gradi e livelli fino ad innalzarsi al punto più alto della nostra potenza intellettiva.
A tal proposito occorre richiamare il titolo della quinta parte – quell’incredibile De potentia intellectus, seu de libertate humana, “La potenza dell’intelletto ossia la libertà umana”. Occorre insieme ricordarsi che siamo appena usciti dalla servitute humana, ovvero dalla schiavitù delle passioni – o meglio, non sappiamo ancora se da quella che è risultata essere la nostra stessa costituzione fisico-naturale sia possibile “uscire”. Sappiamo per certo che non se ne può prescindere, e che ciò che a noi appare come libera volontà, altro non è che la potenza desiderante del corpo amplificata dalla mente. Sappiamo anche che, seppur con difficoltà, l’utile individuale e quello sociale possono in qualche misura accordarsi e persino convergere. Quel che resta da indagare è se per caso non c’è una destinazione ulteriore – etica nel senso più elevato – che costituisca l’orizzonte della beatitudine, cioè la “Libertà della Mente“, ovvero “quale potere la ragione stessa abbia sugli affetti“. Spinoza sbaraglia in poche pagine, in apertura di quest’ultima parte, la scissione cartesiana di corpo e mente (o anima), mostrandone il carattere occulto e del tutto irrazionale. E con la proposizione III rilancia il discorso su tutt’altro livello:

Un affetto, che è una passione, cessa di essere passione non appena ce ne formiamo un’idea chiara e distinta.

La passività si dissolve (o si riduce) attraverso la potenza (cioè il grado, la facoltà) conoscitiva. Poiché ogni affezione è conoscibile in modo chiaro e distinto, ci è data la possibilità – nella misura di questa stessa chiarificazione e distinzione – di non esservi supinamente soggetti. Ma non basta: la conoscenza adeguata è quella che considera come necessarie tutte le cose (“in quanto comprendiamo, possiamo desiderare solo ciò che è necessario” – aveva scritto verso il termine della quarta parte, ribadendo una concezione che attraversa tutta l’Etica), e solo così il nostro potere sugli affetti potrà estendersi ulteriormente. Non mi basta cioè sapere come sono fatto, da quali affezioni sono mosso, ma devo anche comprenderne la determinazione causale necessaria per potermi definire davvero libero. Sembra quasi un paradosso, un rovesciamento dell’ovvio: ma per Spinoza, poiché la libertà così come di solito viene intesa è pura illusione, solo la comprensione profonda della dinamica necessitante delle cose può aprire la via alla vera libertà, che non può non coincidere con la verità. Solo laddove sapere, potere e dovere si sovrappongono ci può essere libertà, e solo a questo livello comprendiamo la coimplicazione del versante ontologico e di quello etico.
Ma procediamo con l’analisi.

La proposizione XVII ci pone di fronte a un primo salto, per quanto non illogico, se solo si pensa a quel che Spinoza intende con il concetto di Dio:

Dio è immune da passioni e non prova alcun affetto di Letizia o di Tristezza.

Per converso, “Nessuno può avere Dio in odio” (XVIII), anzi Dio (cioè la sostanza, cioè la natura, cioè tutte le cose) non può non essere amato, al punto che “Questo amore verso Dio deve occupare la mente in sommo grado“. Spinoza esclude qui in maniera perentoria e preventiva la possibilità stessa del nichilismo. Non possiamo non amare l’essere, la vita, la materia, sembra suggerirci – e di tale amore partecipa il corpo per tutto il tempo della sua durata, in modo costante e continuato, come se si trattasse di un cordone ombelicale irrecidibile.
Proprio all’interno di questa vera e propria apologetica dell’amore divino, troviamo lo scolio che abbiamo citato sopra e che introduce lo snodo essenziale di tutto il discorso – cioè l’ultimo tratto di strada, quello che ci porta dritti al modo più alto e complessivo di conoscere: “E’ quindi ora di passare [in realtà questo passare sembra più un elemento di discontinuità] a ciò che riguarda la durata della Mente senza relazione al Corpo“. Spinoza introduce qui il concetto di eternità, distinguendolo nettamente da quello di immortalità. E’ tuttavia la mente che partecipa dell’eterno e che, diversamente dal corpo “non può essere assolutamente distrutta”. Ma come la mettiamo con la teoria che fin qui ha tenute legate ben strette queste due modalità (e non sostanze, come pensava Cartesio), le forme inscindibili attraverso cui la vita umana si manifesta?
Spinoza argomenta – se ho capito bene – così: nel suo rapportarsi al corpo la mente non può che essere temporale ed avere una durata. Ma se noi la pensiamo in relazione al tutto (al Dio-sostanza) – se la consideriamo un frammento di quella sostanza, dunque se, in quanto esseri pensanti, ci collochiamo in un punto di vista prossimo alla sostanza stessa – le cose ci appaiono in tutt’altra maniera. Non solo “sentiamo e sperimentiamo che siamo eterni”, ma giungiamo alla conclusione che pure l’essenza del corpo (che è la sua costituzione singolare, il suo essere questo o quel corpo e non un altro) può essere espressa sotto specie di eternità. Giova qui ricordare che per Spinoza l’essenza non è un universale astratto, ma, al contrario, un elemento specifico, una modalità determinata, una forma individuale data. Ma è bene riportare il passo in cui Spinoza definisce questo delicato passaggio:

Benché non ricordiamo di essere esistiti prima del Corpo, tuttavia sentiamo che la nostra Mente, in quanto implica l’essenza del Corpo sotto specie di eternità, è eterna, e che questa sua esistenza non può essere definita dal tempo, ossia non può esser spiegata con la durata. (Sc.prop.XXIII)

A questo punto viene chiarito come questo punto di vista – lo sforzo supremo della Mente e la sua massima potenza comprensiva – richieda il terzo genere di conoscenza. Si dovrà dunque tornare con la memoria a quella pagina della seconda parte dell’Etica dove vengono definiti i tre gradi di conoscenza:

1. Il livello percettivo, mutilo e confuso, senza ordine, con il suo riflesso semiotico-immaginativo (cognitionem ab experientia vaga, opinionem, vel imaginationem)

2. Il livello delle nozioni comuni e adeguate che consente di considerare le cose in maniera razionale (rationem);

3. Ma “oltre a questi due generi di conoscenza ce n’è ancora un terzo, come mostrerò in seguito, che chiamerò scienza intuitiva” (scientiam intuitivam, parte II, sc.2, prop.XL).

Non può che affacciarsi anche qui l’impressione di un salto, di una rottura gnoseologica: che tipo di conoscenza sarà mai quella che va oltre la comune razionalità? Che punto di vista può essere quello che è in realtà un non-punto di vista? Spinoza ribadisce come ciò dipenda proprio da quanto siamo in grado di torcere la normale visione spazio-temporale, fino alla sua indistinzione, poiché noi conosciamo le cose in due modi: secondo il tempo e il luogo oppure sotto specie di eternità. Ma da dove deriva questa potenza suprema che ci fa considerare le cose in maniera extratemporale? Non dovremmo essere noi stessi Dio per poterci collocare sulle vette innevate dell’eterno?
In realtà non si tratta tanto di esserlo (anche se sappiamo di esserne per lo meno un frammento, un modo), ma di sentire questo punto di vista, di innalzarsi ad esso con qualcosa di simile alla passione di cui in teoria ci saremmo dovuti liberare: l’Amore intellettuale di Dio (Amor Dei intellectualis) è il vertice insieme mentale e affettivo che può catapultarci in quell’ulteriorità che non è un altrove (la trascendenza), ma la più profonda modalità di comprensione delle cose che ci è data (la pura immanenza, il sentirsi parte del tutto, frammento dell’assoluto). E’ questa una razionalità ebbra o una passionalità ordinata – uno sciogliersi della ragione, pur sempre frastagliata, nell’intuizione unitaria.
Una volta raggiunto questo livello, tanto i concetti quanto i termini utilizzati da Spinoza non possono non rievocare la mistica religiosa: amore, salvezza, beatitudine – quel che “nei libri Sacri è chiamato Gloria, e non a torto” – poiché si tratta della forma più alta di letizia, e di soddisfazione dell’animo. Si stabilisce qui una sorta di circolarità (non del tutto chiarita), tra amore e ragione (o è forse meglio dire intelletto): comprendere a questo livello genera gioia, ma è la gioia di averlo raggiunto a confermare il terzo grado di conoscenza, e a farcelo distinguere dal secondo.
E a tal proposito ci viene dato un ulteriore elemento, che solo di primo acchito potrebbe apparire paradossale (in questa parte dell’Etica tutto sembra paradossale): “la conoscenza delle cose singole che ho chiamato conoscenza intuitiva o di terzo genere” è ben “più potente della conoscenza universale che ho chiamato di secondo genere”. Ma come, la conoscenza universale sta più in basso di quella intuitiva e singolare? Una dimostrazione razionale avrebbe così meno “potenza” di una intuizione singolare? Spinoza risponde “limpidamente” di sì, senza dubbio alcuno. Perché qui, a questo livello, l’accesso alla conoscenza delle cose è a filo diretto, come se avvenisse dall’interno, non da un esterno oggettivamente inteso. Un interiorizzarsi, non un esteriorizzare; un guardare da dentro non da fuori, un vero e proprio indiarsi – cioè essere tutt’uno con la sostanza, ma non in quanto la si oggettivizza, bensì in quanto si è sostanza, ci si sente un suo modo in relazione con tutti gli altri modi – singolarità tra le altre singolarità, tutte su un medesimo piano.
E la proposizione XXXVII ribadisce per la seconda volta la totale impossibilità di ogni discorso nichilistico, se si considera questo nuovo punto di vista:

In natura nulla esiste che sia contrario a questo Amore intellettuale, ossia che possa annullarlo.

Ma la cavalcata verso l’eterno non è ancora terminata, occorre anzi ripescare e ricollocare (metabasi in altro genere!) alcune precedenti (e materialissime) categorie, per vedere come esse si trasmutano in questa sorta di alchimia della totalità: la prima considerazione da fare è che tanto il secondo quanto il terzo genere di conoscenza ci liberano dai patimenti degli affetti negativi e, soprattutto, ci liberano dal timore della morte. Non solo: l’intelletto fa sì che tutta la parte passiva del nostro essere si volga in attività e perfezione: quanto più si agisce, tanto più si è perfetti. Di più: quanto più il nostro corpo è “atto a moltissime cose” (una vera e propria onnilateralità dispiegata) tanta più eternità entrerà nella nostra mente, e tanto meno temeremo la morte. Solo così potremo vivere pienamente.
Ma l’Etica non poteva non chiudersi con un’apologia della figura del saggio – beato e virtuoso – che è l’unico modo di essere davvero liberi, e non soggiogati dalle voglie e dall’incostanza degli affetti. Non si tratta di né di un soggetto cogitante (alla Cartesio), né tantomeno di un soggetto onnivoro, cui la sostanza viene prometeicamente ridotta (alla Hegel). Il saggio posseduto da amore intellettuale (o da intelletto amoroso), che vede le cose togliendosi le lenti dell’oggettività (e dell’utilità), e comprimendosi lungo il piano dell’immanenza, sa solo di essere una stilla (non una stella) nel mar dell’essere. Non è un imperatore, ma non è nemmeno un suddito. L’unica sudditanza è quella della necessità delle cose, che però, una volta compresa, lo eleva… già, a che cosa lo eleva?
Troppo in là però si sono spinte queste “lezioni” (‘all’alta fantasia qui mancò possa’), e dunque lascio che la mia oscillante interpretazione ceda il passo al testo, alla parola del gigante sulle cui spalle, io microscopico discepolo,  ho cercato di destreggiarmi rischiando talvolta di cadere e di rompermi l’osso del collo:

Dalle cose dette risulta quanto il saggio sia più forte e più capace dell’ignorante, che è mosso solo dalla libidine. Infatti l’ignorante, a parte il fatto che è sballottato in molti modi da cause esterne e non raggiunge mai una vera soddisfazione dell’animo vive, inoltre, quasi inconsapevole di sé, di Dio e delle cose; e appena cessa di patire cessa anche di esistere. Al contrario il saggio, in quanto è considerato tale, difficilmente è turbato nell’animo, anzi, consapevole di sé, di Dio e delle cose, per una certa eterna necessità, non cessa mai di essere, e possiede sempre la vera serenità dell’animo.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

6 pensieri riguardo “Lezione spinozista 8 – Sub specie aeternitatis”

  1. Dear Sarah, my English is terrible (medley of school memory and google translator), but I’m happy for that your passing. You can easily use the image of Spinoza, because I myself have “stolen” by the network.
    I’m happy for this common interest.
    Read with interest your post (so I practice), and thanks for the link!
    See you soon!

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