Qualche giorno fa una ricca ministra del governo italiano in carica, rivendicava la propria ricchezza come “non peccaminosa”, e come qualcosa di cui non ci si debba vergognare. A parte l’interessante accostamento alla sfera del sacro, la suddetta ministra rimuoveva l’ovvietà (sepolta sotto anni di pesante restaurazione) di dover rendere conto delle cause e delle radici di quella ricchezza. Non tanto della sua propria – di cui m’interessa poco (e su cui i riccastri fanno di solito leva, per argomentare con la naturale passione umana dell’invidia) – ma, più in generale, della genesi e struttura della proprietà in quanto tale. Continuare a suonare la campana a morto del pensiero marxiano, che aveva messo il dito sulla piaga, non li esime certo dal dover rispondere alla domanda essenziale: donde viene, qual è il senso storico, sociale ed antropologico della loro ricchezza? come si è originata ed accumulata? e che cosa se ne fanno?
Sono domande che, come appare evidente, esulano dalla sfera etica o morale. Non è con i sensi di colpa che si cambiano le cose, ma con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Togliere il velo dagli occhi di chi guarda e il velo dell’oblio dai rapporti sociali (cos’altro è la ricchezza se non questo?), è semmai il compito primario del pensiero critico.
Ascendendo di causa in causa, uno degli affluenti più importanti del fiume marxiano è proprio il pensiero politico-antropologico di Jean-Jacques Rousseau, in particolare quello del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, la cui rilettura attenta consiglierei al ministro di cui sopra…
Praticamente impossibile sintetizzare in un post la ricchezza tematica del Discours sur l’inegalité – un vero e proprio capolavoro di antropologia filosofica, atto fondativo, a parere di Lévi-Strauss, delle moderne scienze umane. Va da sé che alcune delle tesi ivi contenute sono discutibili, non tanto o non solo perché oggi ne sappiamo di più, ma perché il tentativo roussoiano è quello di andare alle radici dell’umano, di indagare ciò che costituisce la natura umana e la sua specificità. Opera quant’altre mai complicata, poiché non si dà l’obiettività di un giudice esterno (né può esservi, proprio per la natura antropofora e autoproduttiva del genere umano), e dato che a definire che cosa sia l’oggetto umano è il medesimo oggetto sdoppiato in soggetto, che è un po’ come voler osservare se stessi mentre ci si guarda ad uno specchio.
Proverò allora a far emergere 4-5 punti che ritengo cruciali nella disamina storico-antropologica effettuata da Rousseau.
1. Un primo aspetto è metodologico. Rousseau lamenta la pigrizia mentale degli europei (e dei filosofi in particolare) nel far viaggiare le loro attitudini conoscitive: viaggiano i mercanti, viaggiano le merci, viaggiano i conquistatori – ma “sembra che la filosofia non viaggi”. Egli rivendica la necessità di fondare una vera e propria geofilosofia, poiché “per studiare l’uomo occorre imparare a spingere lo sguardo lontano; occorre prima osservare le differenze per scoprire le proprietà” (quest’ultimo brano, del tutto in linea con lo spirito del secondo Discorso, è tratto dal Saggio sull’origine delle lingue).
2. C’è poi la questione della natura: che cosa intende Rousseau per “naturale” o “stato di natura”? Certo, una prima spiegazione la si trova nella contrapposizione a ciò che è “civile” (e “degenerato” secondo l’ottica del primo Discorso). Ma ciò non basta. Rousseau è qui alla ricerca del processo dell’antropogenesi, e insieme dei tratti essenziali, costitutivi ed originari di questo processo. Si serve, per far ciò, di tutti gli strumenti disponibili, dalle relazioni di viaggio a sfondo etnologico all’autoosservazione, dalle conoscenze biologiche e scientifiche alla storia – in un tentativo davvero multidisciplinare, piuttosto avanzato per l’epoca. Con un paradigma che accomuna tutte queste ricerche, e che può essere sintetizzato nella figura della sauvagerie – quei “selvaggi” che proprio gli europei stavano sistematicamente distruggendo lungo le rotte delle loro scorrerie coloniali.
3. Rousseau non ritiene l’intelligenza o la razionalità il tratto distintivo della natura umana, ciò che la distinguerebbe essenzialmente dall’animalità (si tratta semmai di una questione di grado). Anzi giudica “lo stato di riflessione uno stato contro natura”. Quella umana è innanzitutto una condizione sensibile, in perfetta contiguità con quella animale; e con le altre specie condivide i tratti biologici primari dell’autoconservazione e della pietà. Senonché, la natura umana si rivela ancipite: poteva benissimo rimanere immersa nello stato di natura (ammesso che qualcosa del genere sia mai esistito), ma la non specializzazione istintuale, insieme alle facoltà sovrasensibili cui diamo il nome di libertà e perfettibilità, hanno consentito di rompere il circolo della ripetizione naturale. L’essere umano ha così di fronte a sé un ventaglio di direzioni possibili – questo, non altro, il suo carattere distintivo. Ciò che ne fa un “essere morale”, non solo fisico-naturale. Capace dunque, oltre che di autoconservarsi e riprodursi come tutti gli altri animali, anche di perdersi e di autodistruggersi. L’uscita dallo stato di natura è anche la possibilità dell’uscita radicale dalla sfera del vivente e dell’essere. Una rottura ontologica di cui Rousseau non sembra occuparsi, ma su cui credo occorra sempre ritornare.
4. Si tratterebbe pertanto di facoltà dormienti, i cui effetti sono legati alla contingenza. Un elemento cruciale della “fenomenologia del lavoro” e dell’uscita dallo stato di natura che Rousseau descrive nella seconda parte del Discorso (e che viene da lui definita “storia congetturale”), sta proprio nel concetto di hazard. Insieme all’altra categoria – messa in rilievo da Starobinski – di ostacolo. Il movimento dialettico di questi due elementi – contingenza (più che casualità) e ostacolo (in primis climatico-naturale) – costituisce la trama fitta e talvolta imperscrutabile della vicenda umana fin dagli esordi. Ciò che Rousseau tenta di ricostruire in un breve quanto efficace e drammatico affresco.
5. E veniamo ora alla cerniera che lega le due parti del Discorso – la prima caratterizzata dal tempo immobile delle origini, che si contrappone alla seconda invasa dal tempo storico dell’ingiustizia – non a caso costituita dal celebre passo con cui Rousseau denuncia l’assurdità contingente (non necessaria) della proprietà privata, e che è forse utile riportare ancora una volta:
“Il primo che, avendo cinto un terreno pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed errori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno!”
Tralascerei la faccenda dei paletti, e mi concentrerei piuttosto sul non detto dell’invettiva roussoiana, poiché certo bisogna essere stupidi per generare un’infinita catena di guerre e di violenze (che per Rousseau, contrariamente a quanto pensava Hobbes, avvengono oltre e non entro lo stato di natura), ma soprattutto occorre essere affetti da mimetismo compulsivo. E di fatti, l’appropriazione originaria nata fortuitamente, che darà poi luogo alla dinamica necessitante delle ingiustizie, impone una mimesi generalizzata: “si vede facilmente – scrive Rousseau – come la fondazione d’una sola società rese indispensabile quella di tutte le altre”.
D’altro canto sembra trattarsi di genesi del tutto inconsapevole, che ci porta a dire che forse una delle caratteristiche essenziali dell’umano sta proprio nella meccanicità dell’agire, con tutti i suoi annessi e connessi: ripetizione, imitazione, duplicazione, abitudine, fede, superstizione. Ma che fine fanno allora la libertà e la perfettibilità – la parte sovrasensibile, l’anima – se veniamo così facilmente sovrastati dalla parte automatica?
Vorrei concludere con una breve riflessione sui termini “proprio” e “proprietà”. Vero che Rousseau distingue tra un amore di sé (buono e “naturale”, volto alla conservazione della vita) e un amor proprio (degenerazione dell’altra forma di amore, che comporta nefaste conseguenze, soprattutto sul piano sociale – si veda a tal proposito la nota Q del Discours sur l’inegalité). Ma è curioso che ciò che dovrebbe essere proprio (cioè attinente al nucleo profondo di sé), che raccoglie dunque le caratteristiche essenziali di qualcosa o qualcuno, le sue facoltà, attitudini, qualità, determinazioni interne, finisca poi per dare il nome a ciò che è più esteriore, alle protesi, agli oggetti accumulati, all’estensione più posticcia e vanesia del sé. Rousseau ne dà una spiegazione che è insieme antropologica e psicologica, e che trova origine nell’ “ardore di far parlare di sé”, nel “furore di distinguersi, che ci tien quasi sempre fuori di noi stessi”. L’uomo al più alto grado di “civilizzazione” non fa che tenere “in conto gli sguardi del resto dell’universo”, e a differenza del selvaggio vive sempre fuori di sé, nella opinione altrui.
Vien dunque il sospetto che quelle altissime “proprietà” – anima, coscienza, libertà, interiorità – non siano altro che fantasmatiche chimere, parole al vento. E che di nuovo, dietro di esse, faccia capolino la figura scomoda ma ben più realistica dell’automa. Che può benissimo vestire i panni di un colto e ricco ministro della repubblica!
“movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.
“reale”: da pronunciarsi con la erre moscia….
Molto interessante! Dunque la libertà è un’illusione (una teoria) e la sola via d’uscita dalla proprietà delle cose è quel paradiso della tecnica dove essa perde ogni senso…
La proprietà è forse una delle infinite forme di dominio (illusorio) della terra e quel “vivere fuori di sè” una delle infinite forme della “follia” dell’uomo.
Malgrado l’inevitabilità del tramonto del capitalismo et tout ce qui va avec, vien voglia di chiedersi come dargli una spinterella…
dimenticavo: molto bella anche la foto!
In Africa non esiste poprierà privata e il risultato è che la gente muore di fame. Essendo, infatti, la terra proprietà di tutti la gente tende a occuparne più che può, mettendo al mondo un gran numero di figli. Secondo me ciò che genera la povertà non è l’accumulo della ricchezza spesso dovuta all’intelligenza e alla previdenza, ma alle nascite senza limiti. Il ricco dà lavoro, anche la ricchezza della chiesa produceva lavoro, mediante la costruzione di un numero sterminato di chiese. Il lusso ha prodotto l’artigianato ed ha creato un’infinità di specializzazioni lavorative. La nostra
costituzione difende la proprietà privata, ma ne proclama anche la finalità sociale. E’ stata abolita la servitù della gleba e sono state fatte le leggi contro il latifondismo. Ora le iniziative analoghe a ciò che limita la proprietà terriera andrebbero prese anche contro il capitalismo, il mostro con sette teste che appare ancora indomabile.
@paolina: l’Africa è grande, e la proprietà privata esiste eccome (prova ad appropriarti di qualche minerale o terra rara); ovvio che demografia, lusso, accumulazione sono fenomeni interconnessi; la società non è mai un dato di natura immodificabile; occorre sempre ricostruire la genealogia della proprietà per capire qualcosa della materialità (ed anche della spiritualità) di qualsiasi società. Occorrerebbe poi andare a guardare dove si nascondono oggi i nuovi latifondi (a livello globale).