Abbiamo un problema con la medicina. Che è poi il medesimo problema che abbiamo con la tecnica, ovvero un crescente delirio di onnipotenza (ed una corrispettiva sensazione di impotenza)
Non è qui in discussione che la medicina di tipo organicistico-positivistico abbia conseguito enormi successi. Per lo meno sul piano quantitativo (l’ambito qualitativo è un’altra faccenda): antibiotici e vaccini hanno condotto un’immensa guerra batteriologica dell’umanità contro il resto del mondo, mai vinta del tutto ma sicuramente efficace (non saremmo altrimenti sette miliardi, quasi otto). La chirurgia ha plasmato e riplasmato i corpi. Siamo ormai sulla soglia del corpo ibrido, biomeccanico.
Tuttavia, proprio questo indiscutibile successo ha finito per far montare la testa al potere medico (e farmaceutico): ospedalizzazione, medicalizzazione e farmacologizzazione integrale degli umani non bastano più, ora si entra anche nel territorio liminale di vita e morte.
Già in passato ho discusso di eutanasia, su questo stesso blog, a partire dalle riflessioni di Hans Jonas – che proprio del rapporto tra etica e medicina si è molto occupato. È un argomento su cui occorre essere molto cauti, ma avevo concluso (cosa di cui sono ancora convinto) che è di esclusiva pertinenza del soggetto vivente/morente decidere sui limiti della propria vita/morte: la sfera della sua autodeterminazione non può mai essere violata, e soprattutto non deve esserlo in nessun caso dal potere medico. I medici indagano, diagnosticano, curano – ma è il “malato” a dover decidere su di sé, e deve poterlo fare quando è in grado di intendere e di volere (espressione di volontà che, ovviamente, può presentare problemi, motivo per cui è necessaria più che mai una legge che regolamenti tali volontà, in forma di “testamento biologico” o altro).
I fatti molto gravi successi in un ospedale del milanese (a Saronno, molto vicino al luogo dove abito), se dovessero essere provati senza ombra di dubbio, delineano un’invasione di campo di tale territorio di autonomia individuale. Qui non si tratta nemmeno di eutanasia (che bontà ci può essere in una morte decisa da altri?), ma di arrogarsi un diritto ed un potere che non può e non deve essere della medicina. Mai e in nessun caso, ribadisco.
Ma questi fatti (già avvenuti in passato e su cui occorrerà sollevare eventuali veli omertosi) indicano un problema che sta a monte: ovvero il modo in cui la potenza tecno-medica (che si avvale largamente della chimica e di macchine sempre più sofisticate) considera il “paziente” – termine che già occorrerebbe smontare e superare.
Già il medico-filosofo Georges Canguilhem aveva fin dagli anni ’60 denunciato il rischio che si corre nella definizione di ciò che è normale e di ciò che è patologico – e nella patologizzazione dei malati. Ma soprattutto aveva ben individuato il vizio d’origine (che è poi lo stesso della malattia mentale, non solo di quella fisico-organica): sovrapporre la malattia all’individuo, che viene così oggettivato, reificato, “naturalizzato” e scisso in parti (organi, arti, mente – frammentata a sua volta). Quel che il medico (o lo psichiatra) guarda, non è più una “persona” con il suo divenire di equilibri, squilibri e nuovi equilibri – ma in ultima istanza la patologia, la categoria, la malattia. Se sostenere, mezzo secolo fa, che non esiste la malattia ma esistono solo i malati appariva rivoluzionario, possiamo oggi dire che la rivoluzione non è nemmeno cominciata.
Certo, si risponderà, la “serializzazione” e la tecnicizzazione nell’ambito della salute è del tutto organica alla più generale organizzazione seriale della società: grandi numeri, efficienza produttiva e riproduttiva, masse, code, timbri, burocrazia – tutto deve essere “amministrato”, e a tali protocolli non sfuggono nemmeno (anzi, men che meno) la malattia, il disagio psichico, la sofferenza, la morte.
E qui, ovviamente, si apre il vero problema: che società abbiamo costruito? siamo davvero sicuri che questa anonima megamacchina sia finalizzata alla felicità individuale e collettiva? Ma che cosa si deve intendere per benessere psicofisico? E nient’affatto secondario: come riappropriarsi di saperi (e di poteri) da non delegare interamente ai professionisti della salute, e che non siano però nemmeno consegnati all’improvvisazione del fai-da-te, dell’ingenuità, della superstizione?
È una questione dirimente della bioepoca: che conoscenze ho del mio corpo (da intendersi nella sua dimensione olistica, e non scissa in parti) e che cosa posso decidere del suo divenire?
I protocolli uniformano i trattamenti ed i processi decisionalii, semmai problemi sono i percorsi diagnostici