Lo storico Yuval Noah Harari si chiede, al termine di Sapiens, quale sia in prospettiva una possibile evoluzione della nostra specie, fino ad immaginare un vero e proprio mutamento di forma, uno slittamento ontologico: in questo caso le domande non sarebbero più quelle moderne, kantiane ed umanistiche, circa i limiti gnoseologici e la portata etica del dovere (che cosa posso conoscere, che cosa devo fare?), anche perché il soggetto che le pone sarebbe un altro essere (forse nemmeno più un “soggetto”) dalle potenzialità pressoché illimitate: egli/esso si chiederebbe piuttosto che cosa voglio diventare, se non addirittura che cosa voglio volere?
In questo interregno, nella fase di transito e di passaggio ad una nuova singolarità destinata a sospendere tutti i concetti e le categorie precedenti e a fondare un inedito cosmo post-umano – la vecchia specie umana si sta comportando nella maniera più anti-aristotelica possibile: bestie e dèi commisti, con un volto umano ormai sfigurato:
«Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere. Peggio di tutto, gli umani sembrano più irresponsabili che mai. Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo render conto a nessuno. Di conseguenza stiamo causando la distruzione dei nostri compagni animali e dell’ecosistema circostante, ricercando null’altro che il nostro benessere e il nostro divertimento, e per giunta senza essere mai soddisfatti.
Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?»