[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 16.01.2023]
Questo e il prossimo si possono considerare un unico incontro da suddividere in due puntate: tratteremo dell’istituirsi, con la modernità occidentale a partire dalla fine del XV secolo, di quella visione geostorica che via via si allargherà all’intero globo terracqueo, e che darà luogo ad una vera e propria filosofia della storia occidentale, tra Illuminismo ed epoca dell’ascesa della borghesia industriale. L’arco che ci interessa va dunque dalla “scoperta” dell’America di Colombo fino al Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, un arco di 350 anni il cui processo condurrà fino alla globalizzazione del tardo Novecento – e alla sua crisi negli anni ‘20 del XXI secolo.
Se nello scorso incontro ci siamo concentrati su alcuni elementi fondativi della visione storica occidentale, in particolare per quel che riguarda la temporalità e la visione “progressiva” e diveniente, ci concentreremo ora sullo spazio, ovvero sugli aspetti geografici, geostorici ed antropologici – elementi che confluiranno, tra l’altro, nella visione geopolitica contemporanea.
L’annuncio di quest0 nuovo mondo è ben testimoniato dal filosofo inglese Bacone, che vede con acume visionario nelle vele e nei cannoni – e più in generale nella tecnica – i soggetti principali di una epoca di grande trasformazione: vele e cannoni viaggiano su mari e oceani, ed è proprio questa la chiave di volta di un’accelerazione temporale della storia e di un suo allargamento spaziale come mai prima nella storia umana.
Se Bacone e Colombo, i navigatori e visionari, i balenieri, i corsari e i pirati sono gli annunciatori della nuova epoca, sarà Hegel tre secoli dopo, come massima espressione della modernità borghese e della filosofia europea, a fondare la propria filosofia della storia su una visione essenzialmente geostorica, se è vero che la storia umana sorge ad Oriente, come il sole, e si compie ad Occidente con l’Europa germanica, cui probabilmente farà seguito il Nuovo mondo anglosassone.
I tre assi di questa visione possono così essere sintetizzati: l’immobilismo terrestre sino-asiatico; la terra di mezzo che va dal Medio Oriente all’Europa continentale, con la centralità del Mediterraneo; il Nuovo mondo oltreoceano. Da questo asse geostorico, come si noterà, è fondamentalmente esclusa l’Africa, il continente che secondo Hegel è la terra dell’infanzia dell’umanità, del tutto priva di storia.
Naturalmente queste visioni hanno precise connotazioni ideologico-coloniali e si fondano su due assunti:
-una estrema visione etnocentrica ed eurocentrica
-una radicale semplificazione ed omologazione delle culture umane, specie di quelle cosiddette “primitive”.
Solo con la nascita – recente – dell’antropologia questi due aspetti entreranno in crisi, quasi si trattasse di una scienza dell’umano (occidentale) senso di colpa per avere distrutto per secoli un patrimonio culturale enorme.
Il filosofo che forse più di altri costituirà una cerniera fondamentale del discorso antropologico (e di una peculiare visione filosofico-storica) è Jean-Jacques Rousseau, ma di lui parleremo, insieme a Marx, a Lessing, a Kant e a Herder, ovvero ai “filosofi della storia” a cavallo tra Illuminismo e Romanticismo, nel prossimo incontro.
1. La visione geostorica di Hegel
La concezione hegeliana della storia viene esposta nelle celebri lezioni berlinesi degli anni ‘20 dell’800, e saranno proprio gli appunti dei suoi allievi a costituire le Lezioni di filosofia della storia.
Si fa senz’altro sentire l’influenza della visione di Herder, del geografo Ritter, ma soprattutto di Montesquieu, a proposito dell’influsso climatico-naturale sulle civiltà e sulla storia umana (si veda l’Esprit des lois): o, per meglio dire, a proposito delle strette relazioni tra i vari elementi che costituiscono lo spirito di una nazione (è questo il termine che Montesquieu utilizza prevalentemente per indicare un soggetto storico-politico, diversamente dal Commonwealth-Leviatano preferito da Hobbes). Uno spirito che è fatto sì di leggi ed istituzioni, ma che devono essere spiegate dal loro intreccio con elementi naturali, climatici, dal loro legame con le tradizioni, gli usi e i costumi, la morale, le credenze, ecc. Per certi aspetti lo stato e le leggi arrivano solo alla fine del processo, mentre determinanti sono gli elementi naturali, che però occorre rileggere alla luce della capacità umana non solo di adattamento ma anche di reazione: la volontà umana è in grado di gestire e talvolta piegare la natura – basti pensare alla potenza della tecnica e ai suoi effetti (oggi per lo più nefasti) sugli ecosistemi e sugli ambienti naturali.
Hegel renderà queste teorie funzionali al suo sistema, quasi che la stessa disposizione geografica delle terre e dei mari fosse pre-ordinata al corso della storia del mondo. Eccone una breve e schematica sintesi:
-la storia può svolgersi solo nel “teatro” della zona temperata: i rigori e gli estremi naturali (freddo, caldo, ambienti ostili, ecc.) determinano l’esclusione da quel teatro;
-il rapporto tra mare e terra è un elemento determinante: l’attraversamento del mare implica sempre libertà, coraggio, il salto nell’ignoto e nell’indeterminatezza – che è ciò che manca essenzialmente al continente asiatico: per i cinesi il mare è dove cessa la terra. L’opposizione dialettica tra civiltà marine e civiltà terrestri diventerà così un asse fondamentale della nuova filosofia della storia (su questo tema tornerà uno dei più importanti giuristi e politologi contemporanei, Carl Schmitt, in un breve ed illuminante testo sulla “rivoluzione spaziale” della modernità, intitolato Terra e mare e scritto nel 1942): negli anni in cui vive Hegel, l’Inghilterra domina ormai i mari a livello mondiale, inaugurando la cosiddetta pax britannica (1815-1914);
-il Nuovo Mondo è il continente dell’impotenza, di un minore vigore sia fisico che spirituale (tesi sostenuta, tra gli altri, dal naturalista Buffon, e basata sulle minori dimensioni delle specie animali), per quanto il principio protestante abbia portato in Nord America individualità, particolarità, sete di ricchezza, ecc. – tratti che ne faranno probabilmente il “paese dell’avvenire” (ma la filosofia non si occupa di profezie, puntualizza Hegel);
-l’Africa è «il paese dell’oro concentrato in sé, infantile, avviluppato nel nero colore della notte al di là del giorno della storia consapevole di sé» – l’uomo nella sua immediatezza e naturalezza, barbaro e selvatico. La stessa connotazione geografica e naturale la rende in gran parte inservibile per il realizzarsi delle vicende dello spirito del mondo;
-è il Mediterraneo “l’ombelico della Terra”;
-ma è l’Asia il luogo delle origini: è lì che è sorta la luce spirituale, la storia del mondo. Nomadismo dell’altopiano e, soprattutto, civiltà della pianura fluviale sono i principi geostorici ed antropologici tipici del mondo asiatico – Cina, India, Babilonia: grandi civiltà dell’agricoltura e della stanzialità;
-l’Europa ha una conformazione meno contrastata e più mescolata, meno dipendente dalla natura: ma, soprattutto, è il principio del mare a caratterizzarla, ciò che manca all’Asia: il mare è la vita che procede oltre sè medesima.
La storia va da est ad ovest, dal sorgere del sole in Asia fino al suo tramontare e compiersi in Occidente. Dalla teocrazia e dal dispotismo (Cina, India) alla libertà – passando per la Persia, come punto di transizione.
Se l’infanzia è in Asia, l’adolescenza è in Grecia, il periodo virile (quello dell’universalità astratta) è la figura dell’impero romano; infine, la quarta figura, l’età senile dello spirito, è rappresentata dal mondo germanico dove vige la libertà concreta e la conciliazione reale di individuale e universale (nella forma dello stato): l’avvento della “seconda natura” (il regno dello spirito) è così lo scopo della storia del mondo, lo spirito che si sa come produttore del proprio mondo, la libertà della coscienza, la liberazione dai condizionamenti naturali, la realizzazione del destino e dell’essenza umana. Ma affinché ciò si compia occorrono basi geonaturali adeguate, che non paralizzino l’azione dello spirito umano.
[A distanza di due secoli, pur avendo gli USA preso il posto geopolitico e geostorico delle potenze coloniali europee, specie dell’Inghilterra, stabilendo una vera e propria talassocrazia globale, la geostoria è in movimento: la Cina pare avere ambizioni marine o, comunque, di tipo imperiale, anche se con forme totalmente diverse da quelle occidentali: «L’avvenimento maggiore al quale oggi assistiamo è fuori di dubbio l’ingresso dell’Asia nella storia: voglio dire che l’Asia fino a ieri subiva la storia ed oggi ne è fattore di primo piano». Così Giuseppe Tucci, uno dei più grandi orientalisti del Novecento, scriveva già negli anni ’50. Nel XXI secolo l’egemonia cinese potrebbe diventare uno degli assi storici fondamentali]
2. La figura del selvaggio
Con l’espansione geostorica del mondo europeo, i viaggi e le scoperte che preparano l’epoca coloniale, nasce nella classe intellettuale un dibattito sullo statuto antropologico da dare alle nuove popolazioni – specie quelle americane e “selvagge” – che via via stavano entrando sotto la sfera di influenza delle potenze occidentali. Prima il Portogallo e la Spagna, poi l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia costruirono sul campo la nuova epoca geopolitica e geostorica, che richiedeva anche l’allargamento del pensiero e nuove visioni sia storiche che antropologiche – dal rapporto con le concezioni bibliche alla questione della diversità: i “selvaggi” furono per secoli sia un problema che un mito fondativo dell’identità europea moderna.
Fin da Montaigne che, in un paio dei suoi Saggi, accenna ad un nuovo modo di guardare alla diversità, fondata sulla ragione, una certa dose di scetticismo etico e un primo tentativo di relativismo antropologico: persino il cannibalismo è giustificabile agli occhi del pensatore francese, che anzi ritiene ben più barbari certi modi europei e civilissimi di condurre la guerra. Questo è uno dei possibili usi della figura del selvaggio (indipendentemente dal fatto che sia o meno “nobile” o “buono”), volta a criticare e fustigare i corrotti costumi europei.
Accanto a questo, inevitabilmente vi è la questione delle origini antropologiche e dello statuto politico delle nuove popolazioni: la modernità accantonerà sempre di più le fonti bibliche per spiegare la diversità umana, e si atterrà all’osservazione, alle narrazioni dei viaggiatori, ai materiali etnografici, alla ragione e, in taluni rari casi, persino all’ascolto dei diretti interessati. Da questo punto di vista occorre sempre ricordare che le visioni dell’alterità sono sempre condizionate dall’ideologia, dallo sguardo di chi osserva: il selvaggio è più spesso una proiezione immaginaria di quanto non sia una realtà sociale concreta.
A tal proposito i filosofi della politica, quali Hobbes e Locke – prima di Rousseau – considerano nelle loro opere le popolazioni selvagge come rappresentative di uno stato meno evoluto di quello “civile”, ovvero come stato di natura originario.
Possiamo quindi, in breve, elencare una serie di questioni che attorno alla discussione sul nuovo mondo e sui selvaggi emergeranno via via nella coscienza europea, e che andranno poi a costituire un certo modo di intendere la storia:
-come già accennato le categorie di diversità e di relativismo (che saranno poi fondamentali per la nascita delle scienze umane e dell’antropologia), con l’annessa domanda fondamentale: esiste un unico corso storico, un unico ritmo evolutivo o dobbiamo pensare ad una irriducibile diversità storico-culturale?
-lo stato di natura, come fase prepolitica o presociale: qui le visioni sono diverse e il dibattito è molto vivace. Hobbes e Rousseau ne rappresentano senz’altro i due poli opposti – per il primo lo stato di natura è uno stato di guerra, dove vigono la miseria, l’infelicità, la paura, mentre per Rousseau l’uomo civile è più infelice di quello naturale – ma va segnalata anche l’interessante visione di Locke, a proposito della dissociazione tra stato e società, ma soprattutto
-la sua visione di terre vergini e incontaminate, di uno spazio pressoché vuoto, e dunque del tutto disponibile alla colonizzazione – ciò che è storicamente un falso, dato che in realtà si è trattato semmai di uno svuotamento e di un genocidio, con la complicità della bomba epidemica (certo, del tutto involontaria) che accompagnò i processi di dominazione, colonizzazione e schiavitù in America (si pensi alla “sostituzione etnica” degli indios sterminati con gli schiavi provenienti dall’Africa);
-il selvaggio, il barbaro, il non-europeo, l’altro viene così infantilizzato: valgano, per tutte, la figura di Venerdì di Defoe o la definizione dell’illuminista Voltaire di un selvaggio brasiliano descritto come «l’animale la cui specie non è ancora giunta al suo compimento. È un uccello le cui penne spuntano molto tardi, un bruco chiuso nella sua crisalide che diventerà farfalla solo tra alcuni secoli. Anche lui avrà forse un giorno dei Newton e dei Locke, e allora avrà condotto a compimento l’intero ciclo della natura umana, sempre nell’ipotesi che i suoi organi siano abbastanza duttili e vigorosi da giungere a quel termine»;
-in sintesi: la visione di storia che esce da questo dibattito finirà per essere proprio quella hegeliana, a senso unico: non c’è altro corso storico che quello del progresso occidentale, del suo tempo lineare, della sua indefinita accumulazione di capitale, di merci, di oggetti, di produzione. Esattamente il problema che ci troviamo ad affrontare oggi.
3. L’alba di tutto
«Gran parte della storia umana è perduta in modo irrimediabile». È questo l’incipit de L’alba di tutto, il grande libro di “storia totale” uscito recentemente per mano dell’antropologo anarchico Graeber (scomparso nel 2020) e dell’archeologo Wengrow.
È una conclusione amara, ma nello stesso tempo ci vorrebbe introdurre all’idea della profondità – quasi insondabilità – e della complessità della storia umana, così varia, così stratificata, ma anche così sorprendente da risultare spesso inafferrabile. Per molteplici ragioni: 200mila anni di storia, in gran parte senza scrittura e con documenti e resti labili e di difficile interpretazione.
Ma se c’è una cosa di cui i due autori sono convinti, e di cui ci vogliono convincere, è che non solo non esiste una filosofia unica della storia, un ritmo evolutivo predeterminato e quasi necessario, ma nemmeno leggi storiche ferree: per lo più quel che leggiamo in quel tempo profondo è frutto di proiezioni, semplificazioni, teorie pregresse, tesi predeterminate, schematismi.
Su tutte quella più classica, ovvero la dinamica oppositiva dell’epoca che va dal paleolitico al neolitico – le culture foraggiatrici, della caccia-raccolta e la nascita delle società agricole. In primo luogo non esiste affatto una successione cronologica necessaria (del resto esistono ancora oggi società non agricole, per quanto ormai marginali e confinate in luoghi molto simili a riserve); ma soprattutto i due autori mettono in discussione alcune presunte costanti classiche, secondo cui le società agricole sarebbero gerarchiche mentre le altre anarchiche, stanziali o nomadi, e così via. Anche in questo caso esistono clamorose smentite empiriche che vanno emergendo da studi privi di paraocchi, confermando la tesi più generale: non c’è un’unica dinamica, un’unica forma di sviluppo delle società, ma forme molteplici irriducibili a leggi unitarie. Gli esseri umani hanno avuto molta più immaginazione di quanta non ne abbiano avuta i filosofi, gli storici, gli intellettuali.
Anche le tesi opposte di Hobbes e di Rousseau, volte a spiegare l’origine della disuguaglianza tra gli uomini, sono letture semplificate se non errate della storia: non c’è alcuna necessità che le cose vadano in una direzione piuttosto che nell’altra. Certo, ci sono bisogni, interessi, desideri: ma le possibilità di soddisfarli non sono mai univoche. La domanda giusta non è tanto “come mai esiste la disuguaglianza tra gli uomini?”, ma “come mai oggi la storia appare bloccata”? Perché mai si è arrivati a pensare che esista un unico binario su cui debba correre?
L’alba di tutto, non il tramonto o la “fine della storia”: questo dovrebbe essere lo slogan della storia futura, una storia (o una filosofia della storia) all’insegna della possibilità. Se non dell’utopia.