“Innumerevoli forme e meravigliose”

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La vita ha qualcosa di inafferrabile. Fa parte di quella categoria di concetti che, per l’eccessiva generalità o profondità, sfuggono alla possibilità di essere definiti – un po’ come succede coi concetti di essere o totalità o natura: tutti sappiamo che cosa si intende con quei termini, ma volendoli definire ci si avvolge in difficoltà… tipicamente filosofiche. «Benché sperimentiamo la vita quotidianamente – scrive il chimico e divulgatore scientifico Jim Baggott – e siamo in grado di riconoscerla facilmente quando la vediamo, in effetti non sappiamo davvero che cosa essa sia».
Nel caso del fenomeno della vita, è stata la scienza a prendere il sopravvento in epoca moderna (già era successo con il mondo fisico, lasciando alla filosofia le briciole dei concetti poco interessanti per la vita pratica degli umani). Per la biologia moderna la vita diventa un problema da risolvere, mentre per la filosofia rimane un enigma che non può essere sciolto. Noi qui ci occuperemo innanzitutto del problema, lasciando ai margini l’enigma (e il fascino del mistero), anche se vedremo come nel linguaggio scientifico finiscano poi per ricorrere termini e categorie di ordine filosofico.

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Gitani solitari e filogenetici

(Siamo così tanto predeterminati dal linguaggio e dalla filogenesi, sacchi così tanto ricolmi della farina altrui, da dimenticare talvolta di verificare da dove certe espressioni ci vengono; poi, casualmente, capita di rileggere un passo e di esclamare: ah, ecco!
Qualche giorno fa credevo di avere coniato l’originalissima metafora di “zingari del cosmo”, e ora scopro che non era farina del mio sacco…)

“L’uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Egli ora sa che, come uno zingaro, si trova ai margini dell’Universo in cui deve vivere. Un Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini”.

(Jacques Monod, Il caso e la necessità)

Filosofia della contingenza – 1

La lettura de La vita inaspettata del filosofo della scienza Telmo Pievani, mi ha sollecitato una serie di ulteriori riflessioni sul significato di alcune categorie filosofiche, scientifiche (e, se si vuole, ontologiche) che spesso sono state discusse su questo blog. Ma, ancor più, sul loro uso e sulla loro applicazione alla sfera dell’esistenza umana. A tal proposito il biologo e zoologo Carlo Alberto Redi si è molto risentito – anzi infuriato – per l’uso spregiudicato del concetto di natura umana: a sentir lui, filosofi, teologi e non-scienziati in genere, dovrebbero limitarsi a parlare di condizione umana, lasciando ai biologi di occuparsi di ciò che attiene al campo della “natura”.
Non è che sia molto d’accordo con questa tesi, anche se Redi ha dalla sua che spesso si parla di questi argomenti con estrema leggerezza, e senza magari avere sufficienti elementi di conoscenza. Gli risponderei kantianamente così: una categoria senza materia prima sarebbe vuota, ma i dati senza una teorizzazione sarebbero ciechi. Trovo dunque che il punto di vista di Pievani – lungo il crinale della ricerca scientifica e della discussione filosofica – sia quello più fruttuoso ed interessante, poiché tende ad unire (non a confondere) i campi di ricerca, anziché tenerli separati.
Svolgerò pertanto, nel corso di tre articoli, un ragionamento a chiosa del suo testo, così ripartito:
1. Chiarimenti preliminari sui concetti di necessità, caso, contingenza
2. Uno sguardo ai “fatti” e alla storia della vita e della specie
3. Conseguenze sulla “condizione (o natura) umana”

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