Animalia IV – La natura come Wunderkammer. Con una nota finale sul concetto di forma

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PARTE PRIMA – Bellezza evolutiva

«Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue molte capacità, che inizialmente fu data a poche forme o ad una sola e che, mentre il pianeta seguita a girare secondo la legge immutabile della gravità, si è evoluta e si evolve, partendo da inizi così semplici, fino a creare infinite forme estremamente belle e meravigliose» – così Darwin chiudeva la sua opera L’origine delle specie, comparsa nel 1859.
Il concetto di meraviglia (e di bellezza) è qui presente innanzitutto in una forma che potremmo definire esteriore: un alieno che arrivasse sulla terra (secondo l’esperimento mentale del biologo contemporaneo Kupiec) vedrebbe nello spaziotempo il manifestarsi delle linee vitali attraverso una enorme variabilità e sperimentazione di sempre nuove forme, forme mai fissabili in categorie, ma perennemente cangianti. Un’apparenza di stabilità contro un continuo lavorìo metamorfico su tempi lunghissimi, misurabili in centinaia di milioni di anni. Un processo che procede però senza un apparente ordine, con ritmi quantomai contingenti e imprevedibili: basti pensare a quel che i paleontologi definiscono “il noioso miliardo” (da 1,8 a o,8 miliardi di anni fa), in contrapposizione all'”esplosione del Cambriano”, quasi un’epoca psichedelica e lisergico-evolutiva.
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Noioso miliardo

Ben prima della cosiddetta “esplosione del Cambriano”, circa 500 milioni di anni fa, ci fu un vero e proprio eone – il Proterozoico – in cui si affinarono le tecniche vitali ed evoluzionistiche che hanno consentito tutto il resto, ovvero: nascita delle cellule eucariote (quelle col nucleo), organismi pluricellulari, fagocitosi (il prototipo dell’eterotrofia: un vivente, in questo caso la cellula, che ne ingoia un altro), morte cellulare programmata e riproduzione sessuale. Queste sono le principali, ma ce ne furono altre non meno importanti; la cosa che colpisce di più è che tutto questo avvenne in circa 2 miliardi di anni, un periodo del tutto al di fuori della nostra portata temporale. Addirittura i paleontologi si riferiscono al periodo che va da 1,8 a 0,8 miliardi di anni fa, come al “noioso miliardo”.
L’altro aspetto incredibile – e ciò riguarda in particolare il “grande evento ossidativo” generato dai cianobatteri e simili, ovvero la liberazione di ossigeno che avvelenò una parte dei viventi e ne favorì altri – è il pazzesco ed imprevedibile incastro chimico-geologico con tutti i fenomeni vitali: un processo (in gran parte contingente e non programmato) fatto di dissesti, tentativi ed errori, avanzate ed arretramenti e sistematiche estinzioni di gran parte delle specie – un processo così in bilico e complesso (di cui ancora mancano parecchi dettagli) da perderci la testa. Sapere che noi siamo l’esito improbabile di tutto questo lavorìo geochemiobiologico dà le vertigini.
(Il libro di Baggott Origini è a tal proposito una piccola miniera, uno studio molto ben concepito, documentato e articolato).

Antropocene 4 – La torta e la glassa

Sarà questa la metafora che ci guiderà in questa nuova tappa del nostro viaggio nella coscienza umana, una metafora coniata dall’antropologo-filosofo Clifford Geertz, per criticare gli assertori anti-relativisti di teorie forti della Natura umana o della Mente – ovvero di essenze permanenti ed immutabili volte a definire Homo sapiens una volta per tutte. La torta è la biologia, mentre la glassa è la cultura; la biologia è la sostanza, la cultura solo una vernice superficiale: ciò vuol dire che per quanto ci eleviamo ai cieli della metafisica, non potremo mai liberarci dal “guinzaglio genetico” che ci stringe il collo.

La prima parte del nostro incontro sarà dedicata a mettere in dubbio il senso di questa metafora, perché la sociobiologia, la psicologia evolutiva (e anche il biologismo dello zoologo Desmond Morris, che negli anni ’60 ha scritto il celebre saggio divulgativo La scimmia nuda) non convincono per nulla: non c’è dubbio che è dalla natura e dalla biologia che veniamo, al pari degli altri animali, ma sono proprio alcune delle sue caratteristiche biologiche (specie-specifiche) ad aver consentito ad homo sapiens di compiere dei salti evolutivi, e di imprimere alla sua storia un’accelerazione assente in altre specie. Con questo non stiamo dicendo che l’essere umano sia extra-naturale, ma che occorre definire meglio il concetto di natura e in quale misura essa si va innestando (e modificando) nel corso dell’evoluzione culturale.

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Quarto fuoco: dadi e dande

«La natura può essere davvero “crudele” e “indifferente”, in quanto non esiste a nostro beneficio, non sapeva che saremmo venuti e non le importa assolutamente nulla di noi» (Gould)

«Già ora abitiamo su un magnifico sasso vagante alla periferia della Via Lattea, schiacciati fra il gelido vuoto dello spazio esterno sopra di noi e colossali mantelli di magma incandescente sotto di noi, lì a metà, in bilico sopra zattere continentali in movimento e sotto una sottile striscia di atmosfera. In questa pellicola di gas instabili il 99% delle specie esistite nella storia naturale si sono già estinte e fanno parte dei cataloghi museali di un passato che non tornerà mai più» (Pievani)

Frasi come queste – la prima di un illustre biologo e paleontologo statunitense, la seconda di un filosofo della scienza italiano – parrebbero togliere ogni dubbio sulla nostra radicale contingenza, sul fatto cioè che siamo al mondo per caso (anche se non a caso), per una serie cioè di fortunate circostanze, e che nessuno o niente ci aveva previsto, programmato, pianificato. Le teorie finalistiche della creazione o del disegno intelligente non reggerebbero insomma alla prova dei fatti della storia della vita, e più che sorretti dalle dande della necessità noi saremmo stati gettati nell’esistenza attraverso un tiro di dadi.

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Tutto è forma, la forma è tutto

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(inevitabilmente, dedico questo piccolo post
a quel grande creatore di forme che è stato David Bowie
– fino a fare di se stesso una perenne metamorfosi)

Vorrei saper scrivere un libro – una sorta di fenomenologia delle forme – che abbia la medesima mole, vastità di sguardo e profondità di Massa e potere di Canetti.
Credo di avere sempre avuto una grande predilezione per le forme. Si dirà che è ovvio, che non c’è umano che non ami le forme, che è grazie all’attrazione per le forme che ci si innamora, che si fanno esperienze estetiche, che si producono oggetti, che si costruiscono case, e così via.
Non vi è dubbio, ma l’amore intellettuale e sistematico per le forme – che pure possiedo solo in potenza e che invece vorrei saper esercitare in dettaglio, profondità e grande stile – richiede un salto di qualità ulteriore. Richiede una concentrazione intellettuale, una potenza dello sguardo e della capacità di osservazione che solo i grandi artisti e i grandi naturalisti possiedono.
[Tra l’altro, en passant: forme biologiche e forme estetiche, natura e arte, i due organismi essenziali della produzione idealistica secondo la filosofia di Schelling, un pensatore piuttosto dimenticato, e messo in ombra dall’hegelismo, che forse sarebbe il caso di riesumare].
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Filosofia della contingenza – 3

Il tempo è un bambino che gioca coi dadi:
di un bimbo è il regno.
(Eraclito)

[Sommario: 1. La freccia del tempo – 2. Sassi vaganti – 3. Di nuovo: natura e cultura – 4. Parentesi ontologica: la crisi del fondamento – 5. Etica della contingenza – 6. Ancora una filosofia della storia? – 7. Due dilemmi a chiudere – La stoffa delle stelle]

1. Dalla teoria – corroborata da una serie di fatti – che la vita non ci avrebbe previsti (a rigore non avrebbe previsto nessuna delle sue creature o evoluzioni – ma, conseguentemente, essa stessa sarebbe del tutto contingente, cioè poteva benissimo non esserci), Telmo Pievani inclina verso una radicale filosofia della contingenza, ed ecco il motivo del titolo di questa serie di post.
La storia naturale è essenzialmente contingente poiché priva di alcun progetto a priori, ogni specie ed ogni storia di ciascuna specie essendo unica e contraddistinta da serie causali indipendenti la cui congiunzione ha prodotto, a posteriori, quel determinato risultato storico. Il nastro di ciascuna storia non è riavvolgibile, e la freccia del tempo evolutivo corre in una determinata direzione mossa da molteplici serie causali che si congiungono in modo improbabile, inaspettato ed univoco, e non c’è alcuna ragione perché debbano farlo sistematicamente o necessariamente. Questi sarebbero, tra l’altro, gli ingredienti non ancora metabolizzati della rivoluzione darwiniana, che finiscono per storicizzare quel che di solito si pensa sia immutabile: la natura e le sue leggi. Non solo la natura scorre, scorrono anche le sue leggi – e questo scorrimento, come abbiamo già annotato nel post precedente, non è uno svolgimento necessario e predeterminato,  ma un fluire radicalmente contingente.
Questo, tra l’altro, sembrerebbe non valere solo per la vita (tutto sommato un fenomeno minuscolo nell’economia del tutto) ma addirittura per il cosmo o i cosmi, l’universo o i poliversi. La domanda metafisica essenziale fa qui capolino – pure nel bel mezzo di un diluvio bioscientista – e fa risuonare la sua flebile (ma inflessibile) voce: perché, allora, l’essere e non il nulla?

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Filosofia della contingenza – 2

[Chi non vuole sorbirsi le solite menate gnoseologiche e i soliti astrusi giri di parole del linguaggio filosofico, può saltare a piè pari questa prima parte e andar subito ai “fatti”, a partire dalla lettera a)].

Sono sempre stato sospettoso nei confronti della “tirannia dei fatti”, di quell’apologia cioè della realtà e del senso comune utile a smontare la pretenziosità filosofica; d’altra parte non ritengo nemmeno possibili teorie che non siano corroborate da fatti (o ragionamenti) e che ne dimostrino pubblicamente la validità. (Insomma: un colpo al cerchio ed uno alla botte!). Saremmo altrimenti nel territorio della fede o della credenza – dove esistono fatti miracolosi, o teorie da accettare a scatola chiusa.
Pur tuttavia, nessuna delle due tradizionali forme di riduzionismo gnoseologico mi ha mai convinto: né l’idealismo né l’empirismo, sia perché il primo finge di prescindere dai fatti (introducendoli spesso e volentieri in modo surrettizio), sia perché il secondo è pur sempre una teoria, che per di più non ha dietro di sé uno o più fatti inequivocabili. La malsana ed inveterata abitudine filosofica mi ha sempre portato a sospettare che dietro qualcosa ci sia qualcos’altro, che dietro un fatto (come dietro una teoria) ci possa essere rispettivamente una teoria (o un fatto), o magari qualcos’altro ancora: immaginazione, interessi, inconscio, ideologie non dichiarate – di nuovo, fedi o credenze. A maggior ragione occorre guardare all’intero e alle sue infinite correlazioni: un fatto non è mai isolabile da un contesto più generale, né una teoria da una sua base storica e contingente.
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Filosofia della contingenza – 1

La lettura de La vita inaspettata del filosofo della scienza Telmo Pievani, mi ha sollecitato una serie di ulteriori riflessioni sul significato di alcune categorie filosofiche, scientifiche (e, se si vuole, ontologiche) che spesso sono state discusse su questo blog. Ma, ancor più, sul loro uso e sulla loro applicazione alla sfera dell’esistenza umana. A tal proposito il biologo e zoologo Carlo Alberto Redi si è molto risentito – anzi infuriato – per l’uso spregiudicato del concetto di natura umana: a sentir lui, filosofi, teologi e non-scienziati in genere, dovrebbero limitarsi a parlare di condizione umana, lasciando ai biologi di occuparsi di ciò che attiene al campo della “natura”.
Non è che sia molto d’accordo con questa tesi, anche se Redi ha dalla sua che spesso si parla di questi argomenti con estrema leggerezza, e senza magari avere sufficienti elementi di conoscenza. Gli risponderei kantianamente così: una categoria senza materia prima sarebbe vuota, ma i dati senza una teorizzazione sarebbero ciechi. Trovo dunque che il punto di vista di Pievani – lungo il crinale della ricerca scientifica e della discussione filosofica – sia quello più fruttuoso ed interessante, poiché tende ad unire (non a confondere) i campi di ricerca, anziché tenerli separati.
Svolgerò pertanto, nel corso di tre articoli, un ragionamento a chiosa del suo testo, così ripartito:
1. Chiarimenti preliminari sui concetti di necessità, caso, contingenza
2. Uno sguardo ai “fatti” e alla storia della vita e della specie
3. Conseguenze sulla “condizione (o natura) umana”

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La torta e la glassa. Note sulla natura umana

La cultura è una glassa, la biologia una torta
(C. Geertz)

Poiché negli ultimi tempi si sono generate lunghe discussioni – talvolta confuse per l’inevitabile sovrapporsi  ed accavallarsi dei temi – vorrei provare a fare il punto su quello che si sta manifestando come uno dei filoni più consistenti e persistenti del blog, e che lo ha caratterizzato fin dalla sua apertura: la questione della natura umana e del rapporto umano-naturale, con le loro inevitabili ricadute etico-politiche. Non vuole (né può) essere una sintesi esaustiva, né tantomeno la (mia) parola definitiva sull’argomento – anche perché nel quindicennio in cui me ne sono occupato c’è stato un divenire (non saprei dire se uno sviluppo o un “inviluppo”), ma certo un mutamento, delle mie opinioni in merito.
Sento l’esigenza però, onde evitare continui fraintendimenti (che pure ci saranno ugualmente), di chiarire per sommi capi il mio pensiero in proposito. E, insieme, di fornire alcune coordinate di base ai sopraggiungenti, o a coloro che vorranno partecipare alla discussione in un prossimo futuro.

1. Che siamo

L’inaggirabile orizzonte ontologico di ogni discussione resta la constatazione insieme logica ed empirica del nostro essere – o, per  meglio dire, del nostro essere in uno con l’essere. Siamo, e nel dirlo c’è l’autoevidenza assiomatica e non contraddicibile di quella particella verbale. Dico “siamo”, non “sono” non a caso: intendo così prendere le distanze da quella tradizione filosofica che trova la sua massima espressione nel cogito cartesiano, che tende insieme a  soggettivizzare la dimensione ontologica e ad espellerne l’elemento sociale, naturale, storico e biologico. Una prima presa di distanza dal riduzionismo, filosofico e scientifico che sia.

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