Quinta parola: libertà

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[Sommario: Libertà e filosofia – L’uomo-misura di Protagora – Socrate eroe classico della libertà – Diogene hippy e cosmopolita – Il giardino di Epicuro – La catena degli stoici – Il libero arbitrio di Agostino – L’uomo proteiforme di Pico della Mirandola – Necessità e libertà in Spinoza – Stato e individuo: il liberalismo – Libertà, natura e spirito – L’oltreuomo nietzscheano – Sartre e l’esistenzialismo: libertà come possibilità – Libertà moltitudinaria – Responsabilità, alterità e libertà]

Il concetto di libertà è piuttosto sfuggente e, soprattutto, cangiante: epoche e culture diverse intendono questo termine in maniere inevitabilmente diverse. Ma senza voler entrare nella molteplicità dei significati e delle sfumature, evocare la libertà nel campo filosofico significa evocare nello stesso tempo una delle condizioni essenziali del pensiero: di libertà i filosofi hanno bisogno come l’aria, senza libertà di pensiero non ci può essere filosofia.
Ma di che cosa realmente parliamo quando parliamo di libertà? Da che cosa (o di che cosa) siamo (o dobbiamo) essere liberi? E poi: possiamo davvero esserlo, o si tratta di una pura illusione?
Ci faremo queste domande scorrendo velocemente il pensiero di alcuni filosofi o correnti filosofiche, dalla grecità all’epoca contemporanea.

Cominciamo con un esponente della scuola dei sofisti, ovvero di quei filosofi che si facevano pagare per istruire i cittadini ateniesi ad esercitare proprio il libero pensiero, e che insegnavano loro soprattutto l’arte della retorica, della critica, della discussione: Protagora ritiene che “l’uomo è misura di tutte le cose”. Con questo semplice motto fonda quello che oggi noi definiamo “relativismo”: sono i nostri punti di vista sulle cose (e non le cose in sé) a costituire il materiale della verità e della sua ricerca. Questo vuol però dire che la verità non è data una volta per tutte, ma che essa cambia col cambiare del tempo, dei luoghi e dei contesti. Non solo, può addirittura cambiare col cambiare dei singoli e – addirittura – nella stessa vita di un singolo ci possono essere continue variazioni ed oscillazioni. Conseguenza immediata di un così radicale relativismo è sia la più assoluta libertà di ricerca e di critica, sia una certa vertigine, dato che parrebbero non esistere più punti fermi all’esterno (tradizione, senso comune, religione, ecc.), mentre tutto può essere messo in discussione.

Socrate rappresenta senz’altro un campione della libertà nell’epoca classica, tanto da avere sacrificato per le proprie idee (la conoscenza, la verità) il bene più prezioso, la vita: come canterà Dante nel Purgatorio a proposito di Catone “libertà va cercando, ch’è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta”.
Non possiamo qui entrare nel dettaglio dell’opera socratica di “predicazione razionale” nella città di Atene, né del processo che lo portò alla morte. Possiamo però ricordare i due capi di imputazione, quantomai significativi per il nostro tema: Socrate venne accusato di avere introdotto nuovi dèi (quello che egli definiva il dàimon, una vera e propria forma di coscienza, non ancora del tutto interiorizzata) e di avere corrotto la gioventù. Ma non per queste accuse venne condannato a morte: fu il suo dileggio e rifiuto di accettare la condanna (dunque l’avere messo in discussione l’istituzione stessa della pòlis) a costringerlo a bere la cicuta.
Con Socrate si profila, tragicamente, il più classico dei conflitti: la libertà dell’individuo contro le imposizioni sociali.
Vi è poi un altro elemento che andrebbe considerato del pensiero di Socrate: l’ironia, ingrediente essenziale del libero pensiero. La ricerca della verità comincia proprio dal suo ridimensionamento…

Ma è Diogene di Sinope il più grande contestatore e fustigatore dei costumi della pòlis: il celebre rappresentante della scuola cinica predica un vero e proprio “ritorno alla natura” contestando le leggi (nòmos) della città, in quanto false, artificiali, ricolme di ipocrisia.
Diogene è un cantore dell’autarchia, dell’autodeterminazione degli individui: rifiuta la stessa idea di patria o di proprietà: “Guardatemi: casa non ho, né patria, né averi o schiavi: dormo su nuda terra, non ho sposa, né figli, né pretorio, ma unicamente terra e cielo ed un solo consunto mantello. Eppure: che mi manca? Non sono senza paure, senza dolori, non sono libero?”.
E addirittura, vuol essere così poco determinato dall’esterno – così radicalmente libero e incondizionato – che i suoi biografi narrano l’aneddoto secondo cui, in punto di morte, avrebbe deciso di anticipare la fine mozzando con la lingua il proprio respiro. Egli è davvero un hippy, un libertario e un contestatore ante-litteram degli istituti e delle tradizioni sociali, dell’apparenza, dei falsi valori.

Di Epicuro abbiamo già parlato, a proposito della paura e dei desideri. Dalla sua filosofia etica più in generale possiamo dedurre che la libertà ha carattere negativo: libertà innanzitutto dalla paura (degli dèi e della morte) e libertà dalla schiavitù dei desideri.
Epicuro però conclude la celebre Lettera sulla felicità con una tesi molto precisa su che cosa si debba intendere per libertà, al netto del determinismo naturale e del caso o della fortuna: “è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode”.
Dunque c’è una parte del nostro “destino” (del “fato”) che è in mano nostra, dipende da noi e dalle nostre scelte, per quanto sia difficile determinare in che misura il nostro agire sia in grado di indirizzare le nostre vite in una direzione piuttosto che in un’altra (a tal proposito si potrebbe anche interpretare la teoria epicurea del klinàmen – della deviazione degli atomi – come deviazione dal determinismo e dalla necessità naturale).
Di sicuro noi siamo fatti di un miscuglio dei tre. Ma la vera libertà sta nell’atarassia, nella tranquillità dell’animo, che prevede di non immischiarsi troppo con le tempeste del mondo, ed anzi, appena possibile, di ritirarsi nel Giardino a filosofare e a coltivare le buone amicizie.

Molto diversa in proposito la posizione dello stoicismo, che utilizza una efficace metafora per definire il posto che gli umani ricoprono all’interno della necessità del cosmo: l’individuo, e a maggior ragione il saggio, deve comportarsi come il cane incatenato al carro. Il cane può scegliere di seguire volontariamente il carro, ma se decidesse di resistere il risultato non cambierebbe, sarebbe comunque costretto (magari torcendosi il collo) a seguire la via segnata dal carro. La differenza sta nel fatto che nel primo caso si sceglie liberamente quel che il fato impone. La libertà consiste dunque nell’accettare e nel piegarsi alla necessità del proprio destino. Come gli eroi tragici – con la differenza (non di poco conto) che qui si è consapevoli di tale necessità.
Il saggio è inoltre colui che vive libero dalla schiavitù delle passioni e che, piuttosto che essere costretto a vivere una vita non degna sceglie la morte; come raccomanda Seneca: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena nel tuo corpo”.

Agostino pone una delle questioni cruciali del cristianesimo (e della cultura occidentale): il libero arbitrio. Siamo liberi nelle nostre azioni, anche ammettendo un Dio onnipotente, la predestinazione (come faranno poi i protestanti), il male, i condizionamenti del corpo, i desideri, ecc.ecc.?
La dottrina agostiniana del libero arbitrio prevede comunque l’autonomia della volontà e un accento molto particolare sull’interiorità: potremmo anzi dire che con Agostino, e con la sua lettura platonica del cristianesimo, viene fondata una vera e propria concezione della coscienza innovativa rispetto al mondo greco.

Pico della Mirandola scrive nel 1486 un breve testo, quasi un pamphlet come diremmo oggi, intitolato Oratio de hominis dignitate, nel quale espone la sua concezione della natura e della dignità umana.
Quando Dio creò il mondo e tutte le specie che lo popolano, conferì ad ogni creatura una determinata caratteristica, una sua specificità. Nel momento in cui plasmò l’uomo sembrò avere esaurito gli stampi e così lo creò indeterminato: “Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto”. L’uomo è così l’essere camaleontico e proteiforme per eccellenza, colui che è libero di plasmare se stesso, di darsi una forma e di autodeterminarsi.

Spinoza ha sulla libertà una posizione decisamente stoica: “Gli uomini s’ingannano nel ritenersi liberi, e questa opinione consiste solo in questo, che essi sono consapevoli delle loro azioni ma sono ignari delle cause da cui sono determinati”.
Tutto sta nell’analizzare in maniera dettagliata quel groviglio di problemi inerenti alle categorie di necessità/libertà/volontà, in particolare per quanto attiene alla nostra vera natura, determinata essenzialmente dalle passioni: la progressione dei titoli delle ultime tre parti dell’Etica è molto chiara in proposito: Della natura e dell’origine degli affetti, Della schiavitù umana ossia delle forze degli affetti, Della potenza dell’intelletto ossia della libertà umana. Spinoza pensa che gli esseri umani debbano affrancarsi dalle passioni e crescere in termini conoscitivi, elevandosi fino al più alto grado delle loro capacità intellettive; solo la conoscenza ci può liberare dalla schiavitù delle passioni, ma non dalla necessità naturale: non possiamo rinnegare quel che la natura ha decretato.
Il pensiero di Spinoza ha un che di paradossale: tanto il suo sistema filosofico è logico, necessario, geometrico, compatto, tanto però, d’altro canto, egli ritiene imprescindibile e fondamentale la libertà umana, in un’epoca in cui si può oltretutto essere arsi vivi per avere espresso le proprie idee.

Locke, Voltaire, Hume, Mill, pensatori politici sopratutto di area anglosassone, definiscono tra ‘700 e ‘800 i principi basilari della società liberale, sia in termini giuridici che politici e civili.
Il liberalismo ritiene beni come la vita, la proprietà e la libertà essenziali ed incomprimibili. Si può anzi dire che la libertà così intesa sia essenzialmente la libertà dell’individuo dall’eccessiva intromissione e pressione della collettività (sia essa lo stato, la società o il senso comune).
Mill, ad esempio, ritiene fondamentale la libertà di espressione, di parola, di pensiero, non solo in termini di realizzazione individuale, ma anche come ingrediente imprescindibile della ricerca della verità. Uno dei capitoli più interessanti del suo saggio On liberty mette proprio in guardia da quella che lui definisce la tirannia della maggioranza, anticipando così le analisi novecentesche sui temi dell’omologazione e del pensiero unico.

La linea di filosofi, pur molto diversi tra di loro, come Kant, Hegel, Marx, Bergson, mette in primo piano l’elemento collettivo e spirituale (storico) della libertà, che non dovrebbe essere contrapposto all’elemento individuale.
Kant fonda l’autonomia morale e la libertà umana proprio sulla separazione tra fenomeno e noumeno, natura e spirito.
In particolare Marx ed Hegel ritengono che la storia umana altro non sia che realizzazione della libertà: liberazione dalla necessità naturale da una parte e realizzazione delle opere umane (arte, religione, politica, filosofia, storia, ecc., quel complesso culturale che Hegel definisce con il termine “spirito”). In Marx tutto ciò assume una forma meno astratta e ideale, laddove lo “spirito” diventa semplicemente “lavoro” e attività umana in generale: nel III libro del Capitale si parla esplicitamente di passaggio dal regno della necessità al regno della libertà.
Per lo spiritualista Bergson, la vita è un’onda immensa che si evolve, fino al salto brusco della libertà umana.

Per quanto riguarda Nietzsche il discorso è molto più complicato, ad ogni modo potremmo dire che la figura dell’Übermensch, dell’oltreuomo (termine mal tradotto con superuomo), viene da lui prospettata come superamento dell’uomo dominato dalle vecchie morali servili e repressive (su tutte quella del cristianesimo, che reprime gli istinti e la vera natura corporea e vitale dell’uomo).
Ma la libertà di cui parla Nietzsche è ben più radicale, dato che attiene anche al senso delle cose e del mondo; l’uomo è creatore di senso, e con la sua volontà di potenza imprime il corso delle cose: addirittura il macigno del così fu si scioglie nel così volli che fosse, e ogni fatto diventa così prospettiva e interpretazione soggettiva.

La libertà di cui parla Sartre ha una dimensione esistenziale e fondativa della natura umana: la libertà è qui vera e propria possibilità di essere (secondo un discorso tipico dell’esistenzialismo che deriva dal filosofo danese Kierkegaard).
Si è sempre liberi nella situazione data, che è parte essa stessa del progetto che l’uomo si dà. L’uomo è libero ontologicamente, e non può non esserlo se non negandosi in quanto uomo: siamo condannati ad essere liberi, non lo scegliamo; “noi corriamo verso noi stessi”  – dice Sartre – e dunque non siamo in grado di raggiungerci; che è poi, in ultima analisi, il desiderio (impossibile) di essere dio, di autocrearci. L’uomo è così un universale da fare, più che una natura data, l’essenza dell’uomo sta nel non avere un’essenza.
Ma questa libertà così radicale ha un lato angoscioso e l’indeterminatezza del futuro, il non avere più radici ferme nella tradizione o in una natura data una volta per tutte, provoca una vera e propria vertigine del nulla. La libertà come possibilità, dunque, non è solo possibilità che sì ma anche possibilità che no

Vi sarebbe poi un lungo capitolo da aprire a proposito di tutti i nuovi soggetti – una vera e propria costellazione moltitudinaria – che si sono affacciati sulla scena della storia solo recentemente: dalla classe operaia alle donne alle minoranze (etniche, culturali, ecc.) alle comunità GLBT, senza dimenticare il vasto processo di decolonizzazione (peraltro non ancora compiuto) con tutte le sue contraddizioni.
Vi è cioè il lato nascosto delle libertà, i soggetti storicamente esclusi: oggi non ha senso parlare di libertà se non in una dimensione globale, che dunque non attiene solo ad una individualità astratta, né tantomeno al suo rapporto con gli stati-nazione occidentali, ma a soggetti e comunità molteplici, variegate e cangianti. Si torna cioè all’uomo-misura (anzi all’essere umano-misura) di tutte le cose di cui si parlava all’inizio.

***

Concludo con una breve nota sul concetto di responsabilità.
Il nesso con la libertà è evidente (se non altro in negativo): se in un’accezione prevalente la libertà è libertà da (catene di ogni tipo) o di (fare o decidere qualcosa), e dunque a rigore dovrebbe essere quanto di meno condizionato si dà – in realtà non esiste mai una libertà assoluta o incondizionata (quella che spetterebbe eventualmente a Dio, ma anche in questo caso non è detto: Dio potrebbe essere soggetto a delle leggi da lui stesso create e dunque non essere libero in modo assoluto).
Cioè: la libertà è sempre in relazione ad altro, e questo altro può essere il mondo, le leggi, il destino, persino se stessi, ma soprattutto l’altro umano che sta di fronte a noi, ciò senza il quale semplicemente non saremmo o non esisteremmo. La nostra libertà è cioè condizionata in origine (ontologicamente) dal nostro stesso essere venuti al mondo, che è determinato da altri e non voluto da noi. La libertà si configura in sostanza come responsabilità da restituire nei confronti dell’altro che ci ha presi in carico. È il filo essenziale del ragionamento svolto da Salvatore Natoli in un articolo del libro Parole della filosofia intitolato Responsabilità/alterità, e con il quale vorrei concludere questa breve disamina sul concetto di libertà, attraverso una mia libera (!) interpretazione che è già, però, in debito con il pensiero di un altro.

Responsabilità viene dal latino sponsio: promessa, impegno, presa in carico; ed è imparentato semanticamente con il termine praestatio (garanzia). Noi siamo sempre implicati nell’elemento dell’alterità, dimenticare questo non è vera libertà, quanto piuttosto un’omissione radicale, una vera e propria rimozione delle nostre origini.
Questa responsabilità non può che essere una presa in carico della libertà dell’altro: dunque la mia libertà non comincia dove finisce ma, anzi, dove comincia anche quella dell’altro.
Non è libertà da e nemmeno libertà di – ma libertà con.
E, inevitabilmente, come nel principio-responsabilità di Jonas, è una libertà che guarda al futuro, proprio perché parte dal presupposto della nostra radicale contingenza e finitezza, e ne accetta anche le conseguenze. Noi siamo “temporali”, non viviamo nell’istante, e dunque dobbiamo assumerci la responsabilità (la custodia, il prenderci carico) per le conseguenze del nostro agire.
Questa custodia è, in ultima analisi, il dono che fa colui che si sente insieme grato e in debito: l’unico modo per saldare il debito con chi si è preso cura è prendersi cura a propria volta dell’altro. In tale contesto la libertà non è mai uno scioglimento, ma anzi il pieno riconoscimento di un legame: la conoscenza profonda del mondo – come ci insegna Spinoza – è l’unico modo per accettare il nostro non-essere liberi in un senso (noi siamo incatenati alla necessità di essere al mondo, cosa che non abbiamo scelto), ed esserlo però coscientemente nell’altro: noi siamo in grado di comprendere, ed è questa facoltà ad alleggerire le grigie catene dell’essere e a spostare l’accento sul fiore multicolore delle possibilità.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

21 pensieri riguardo “Quinta parola: libertà”

  1. La morte di Socrate la definerei un suicidio. Gli stessi giudici si auguravano che fuggisse, come avevano fatto, prima di lui, molti filosofi malvisti dal potere. Eppure Socrate era contrario al suicidio. Socrate lasciò tre orfani oltre alla moglie. La vita è una cosa più seria delle elucubrazioni di un filosofo fanatico.

  2. @Paolina Serpietri: però a definire la vita “una cosa seria” sono in genere proprio i filosofi.
    Chissà mai, poi, che non sia proprio la vita ad essere fanatica, violenta e impietosa com’è…

  3. @Paolina: sul “ciecamente” sarei più cauto, farebbe un po’ a pugni con l’impostazione razionalistica e dubitativa del suo metodo e pensiero. E comunque non è certo stato l’unico filosofo a credere all’immortalità dell’anima (o a quella cosa strana ed impalpabile denominata “anima”).
    Dopo di che, il problema “Socrate” è che noi sappiamo di lui quel che altri (soprattutto Platone) ci hanno voluto far credere…

  4. ps: ho scritto il commento senza aver letto i precedenti, sul suicidio di Socrate; che difatti seguivo un’altra rotta.
    Nel caso del suicidio di Socrate, però, mi pare che quello fosse per lui, non solo l’unico modo di “sopravvivere” (in senso lato), ma anche un modo eccellente per diventare quasi immortale.

  5. La chiusura è assolutamente “condivisibile”, il nostro mondo sarà presto sovrappopolato, sarà necessario pensare alla libertà come libertà nella condivisione responsabile della vita.
    Vanno elimina l’io/non io per approdare al noi. Parlare di libertà assoluta su una palla che gira sospesa nell’universo è forse una cosa buona per tenere allenato il pensiero( e la sua potenza) ma poco utile per viverci in serenità, su questa palla sospesa. Parliamo invece, questo si, di responsabilità, condivisione, necessità collettive perché su sta palla non è che si si può allargà troppo.

    Poi io esalterei concetti come “consapevolezza”, “buon senso”, “conoscenza”, “necessità”, “solidarietà” ed affini. La “libertà” di per se è un concetto che se portato all’estremo coincide con il concetto di “solitudine” e misantropia.

    .. affatto utili su una palla sovrappopolata che gira sospesa nell’universo. 😉

  6. Socrate venne ucciso per motivi politici. Era dichiaratamente contrario al regime democratico ateniese. La scelta di non fuggire resta un mistero, ma sono sicura, per la stima che nutro per sua intelligenza, che non fu per un motivo filosofico.

  7. Si, si è una morte politica retta ovviamente da un pensiero, e per l’amore di quel pensiero.
    Quale rivoluzione politica è possibile senza il pensiero ?!?.

    La filosofia uccide, o se non altro nuoce gravemente alla salute, l’ho sempre detto.

  8. Mi intrometto: Gesù spariglia i giochi anche perché pare essersi immolato più o meno volontariamente (o per lo meno è quel che la vulgata vuol farci credere, altrimenti 2000 anni di cristianesimo andrebbero in fumo).
    L’ironia poi, dato che si tratta di Socrate, è più che benvenuta…

  9. Dopo di che: vorrei vivere in un mondo in cui non ci sia alcun bisogno di eroi, vittime sacrificali, buone azioni, santi, ecc.

  10. A proposito di libertà, Socrate era libero o condizionato dal personaggio pubblico che voleva rappresentare? Suvvia, cosa dire del dialogo con le leggi? E’ semplicemente paradossale e falso. Libero è chi riseva la vita per le grandi cose, per i principi fondamentali e non chi la sacrifica alla stupidità umana anche quando la stupdità si manifesta attraverso la falsa solennità di un processo nato e condotto in mala fede.

  11. Avrei qualche problema a definire “le grandi cose”. La storia ci insegna che talvolta confinano con le cose più stupide…

  12. Si, la vita non ha bisogni di eroi, grandi ideali, miti e trascendenze, se fosse condotta nel rispetto dell’altro, e di se stessi.

  13. Sulla figura di Socrate, non bisogna dimenticare che alcuni studiosi hanno dubbi persino che sia esistito realmente, dal momento che lo conosciamo soltanto dagli scritti di Platone. Mentre altri dicono, sì è esistito, e va bene. Ma in fondo non ci sono certezze, ma solo ipotesi, che possono anche rimanere tali: ossia ipotesi non dimostrabili con assoluta certezza.

    Sul significato della morte di Socrate, invece, qualche giorno fa ho letto l’interpretazione che ne dà la Arendt. Non so se può interessare, comunque …

    Secondo lei, starebbe a significare la morte della filosofia come era intesa da Socrate; ossia avrebbe segnato la definitiva uscita della filosofia dalla vita della polis. Il senso: la città condanna a morte la filosofia.

    Da notare che, anzitutto ci sarebbero due figure di Socrate: quello dei dialoghi socratici (Apologia, Critone) e quello dei dialoghi platonici ad esempio nella Repubblica (dialogo platonico per eccellenza).
    E con la morte di Socrate, Platone ci dice che è necessario spostarsi da ciò che l’opinione rende disponibile al nostro sguardo a un vedere contemplativo superiore fuori dall’umano, e che solo a questo punto che il filosofo può iniziare a fare politica. Proprio perché il filosofo ha avuto accesso a verità superiori la sua relazione politica con i suoi cittadini si relaziona come autorità e governo, escludendo qualsiasi autonomo esercizio delle proprie facoltà da parte dei cittadini.

    Quindi, Secondo Arendt la condanna a morte di Socrate è il punto d’inizio della separazione tra filosofia e politica e spiega la vocazione tirannica della filosofia di Platone che è una risposta auto-difensiva della filosofia nei confronti dei molti, degli “oi polloi”, che devono essere tenuti sotto controllo. Platone dalla condanna di Socrate deduce delle conseguenze antisocratiche, perché non c’è più tensione tra filosofia e polis ma c’è una prevaricazione della filosofia sulla polis. Eccetera eccetera.
    Fonte: http://digilander.libero.it/callegari/files/Filosofia%20politica/Arendt.pdf

  14. Inoltre … qualora accettassimo l’idea che Socrate e Platone siano lo stesso pensiero interiore dialogante, le due voci minime necessarie per la pratica del confronto, allora si potrebbe dire, in quattro parole: Platone avrebbe suicidato Socrate.
    Oppure, detto in sei parole: Socrate sarebbe stato suicidato da Platone.
    Cosa che in ogni caso starebbe a significare: la morte di “eros nel logos”.
    Certo, Socrate avrebbe avuto la possibilità di scegliere l’esilio al posto della morte. Ma per Socrate l’esilio sarebbe stato peggio della morte, perché non avrebbe avuto più senso la vita.
    E allora, perché vivere?

  15. Al di fuori d’Atene i filosofi erano ben accolti e così sarebbe stato per Socrate. A Don Chisciotte,a volte, io preferisco Sancio Panza.
    A volte la mente si “incastra” e allora occorre qualcuno che la rimetta, nel modo giusto, sulla retta via. A me Socrate mi fa tanta tristezza.

  16. Però a dire il vero la chiusura del post sembra richiamarlo….

    ….” l’uomo diventa libero se riesce a sottoporre la libertà al proprio volere” …

    porcapaletta questa frase detta così è forte 😉

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