Il silenzio di Mahler

(lunedì sera si è concluso, con l’esecuzione della Nona sinfonia, il Festival Mahler di Milano. Avendo un’ora libera prima dell’ascolto, ne ho approfittato per entrare in una chiesa: poco importa che si sia o meno credenti, quei luoghi sacri rimangono talvolta gli unici ricettacoli in cui poter trovare un momento di silenzio atto alla meditazione e all’ascolto di sé – specie in una società satura di suoni e stimoli e cose da fare, spesso prive di senso. Non poteva esserci miglior luogo per prepararsi all’ascolto di quella musica – tanto più che si trattava della Basilica di Sant’Ambrogio, all’ora del crepuscolo, in una giornata di novembre…)

L’ultima sinfonia diretta da Mahler fu l’Ottava (un’esecuzione trionfale a Monaco, nel settembre 1910, l’anno prima della morte).
Le successive, ultime, opere – Il Canto della Terra, la Nona Sinfonia, e l’Adagio della Decima, incompiuta – rimarranno da lui inascoltate/ineseguite.
Si è parlato di “addio”, di dissoluzione, tramonto, congedo per questi ultimi lavori: del Mahler ferito tre volte nel 1907, che mai più si è ripreso dal maglio del destino.
Eppure la musica nuovissima della Nona ci dice altro (o comunque non solo delle note dell’abbandono, della Gelassenheit).
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La forza di Leningrado

L’Orchestra sinfonica di Milano ha eseguito ieri la Settima sinfonia di Shostakovich, nota come Leningrado, una delle sinfonie più amate ed entusiasmanti del musicista russo (ma mi verrebbe da dire “sovietico”).
Per quanto la parola “entusiasmo” sia del tutto fuori luogo, poiché si tratta di una sinfonia diventata il simbolo della resistenza umana e culturale sotto l’assedio delle armate naziste cominciata con l’invasione del 1941.
Le vicende che riguardano l’opera hanno un carattere inevitabilmente epico, sia per quanto riguarda la sua genesi, sia per le vicissitudini: la disperata ricerca per raggiungere l’organico necessario di 100 elementi, la prima prova durata solo un quarto d’ora per eccessiva debolezza dei musicisti, il viaggio rocambolesco della partitura fino a New York, dove venne eseguita dall’antifascista Toscanini e glorificata dagli alleati americani (salvo rimuoverla nel dopoguerra a causa della guerra fredda), l’applauso di un’ora dei cittadini di Leningrado, dove la sinfonia venne eseguita solo il 9 agosto 1942, con tanto di altoparlanti diffusi in città, i soldati tedeschi frastornati…
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Apologia (sonora) della notte

Mi ha sempre affascinato (e un po’ inquietato) la chiusura della Settima Sinfonia di Mahler: una poderosa, talvolta chiassosa e triviale ascesa verso la gioia più luminosa, che prima di assestare il colpo finale dell’orchestra evoca un’ombra sonora su tutte le cose, come a dire: non illudetevi, c’è luce e gioia, ma le tenebre e il dolore incombono, e con ogni probabilità saranno loro a dire l’ultima parola!
Del resto questa è la sinfonia mahleriana più “notturna”: sono ben tre le sezioni dedicate alla notte – le due Nachtmusiken (secondo e quarto movimento) che circondano lo Scherzo centrale, una danza macabra e grottesca, un vero e proprio sabba nel cuore della notte – che per certi aspetti è il vertice della sinfonia. Il primo movimento era stato un crescendo funesto e funebre (connesso senz’altro all’andamento emotivo della precedente sinfonia, la “Tragica”). Poi la lunga notte. Ed infine l’incedere della luce, che però richiama inevitabilmente l’ombra sul finale.
Nulla di nuovo nella concezione sinfonica mahleriana, che è essenzialmente dialettica, e che intreccia vita e morte e tutte le contrastanti e divenienti forme dell’essere: dalla Terza – sinfonia della creazione e della metamorfosi, dove la Natura sta ancora al centro della scena – fino alla Nona e a Das Lied von der Erde, i grandi canti del cigno, del congedo e della dissolvenza.
Ma torniamo alla notte: proprio mentre mi preparavo ad un nuovo ascolto della Settima sinfonia all’Auditorium di Milano, diretta dalla bravissima Zhang Xian, mi è capitato tra le mani un piccolo libro intitolato Elogio alla notte, un “inno a occhi socchiusi” di Claudio Marucchi.
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Mahler, i fili d’erba, la cura

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Poiché settembre, com’è noto e come dice il cantastorie, è il mese del ripensamento, e subito dopo l’estate “porta il dono usato della perplessità”, che induce a giocare con le identità e con le possibilità – mi sono dato, proprio in questo mese, più tempo del solito per le mie passeggiate quotidiane. Non solo: ho anche approfittato della lunga coda estiva per riascoltarmi le 10 sinfonie di Mahler, en plein air. E l’ho fatto a rovescio, partendo dall’ultima e risalendo alla prima. Dieci, nove, otto, sette… una per ogni passeggiata, qualcuna di quasi due ore, come saprà chi conosce Mahler e le sue interminabili opere.
E solo poco fa, al compimento del ciclo, durante l’ultimo movimento del Titano, con la complicità dei fili d’erba mossi dal vento, mi si è rivelato un ulteriore significato di questa mia quasi trentennale frequentazione (quasi ossessione) mahleriana.
La musica di Mahler è stata la mia cura. Non solo e non tanto per l’incredibile ricchezza di significati, un vero e proprio attraversamento di tutte le fasi, i drammi, la bellezza, i chiaroscuri della vita – il titanismo, la tragicità, l’amore, la natura, lo struggimento, la morte, la caducità, una trasognata eternità, l’irraggiungibile sentimento di pienezza e di totalità… e potrei andare avanti a lungo, in un gioco (forse stucchevole) di riconoscimento e identificazione.
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Il fantasma di Mahler

Kokoschka

La rincorrevo da tempo.
Per lo meno dal 2011, da quel giorno di maggio in cui l’orchestra non si fermò, come mi aspettavo, al termine dell’Adagio, e continuò imperterrita per altri 4 movimenti, fino a concludere una sinfonia che mi apparve vastissima e complicatissima, e che ascoltai con il fiato sospeso. Dunque io fino ad allora mi ero perso tutto quel ben di dio musicale? c’era ancora un intero giacimento mahleriano da cui estrarre tesori, e io non ne ero nemmeno al corrente?
Si trattava però di un vero e proprio fantasma, di uno scheletro diseguale che un certo Deryck Cooke aveva cercato di rinsanguare, rimpolpare e riportare in vita. Sfidando oltretutto la secolare maledizione del numero 9 in ambito sinfonico: non pochi musicisti avevano sbroccato, in superstizioso onore del maestro assoluto Beethoven, nel trovarsi ad affrontare ed eventualmente superare il fatidico numero (su tutti Bruckner, che aveva “annullato” il numero di una delle sue sinfonie).
Sto ovviamente parlando della Decima sinfonia di Mahler, di cui ieri ho finalmente ascoltato dal vivo la versione del compianto maestro russo Barshai, che, a giudizio di alcuni critici, pare essere finora la migliore e la più plastica, almeno dal punto di vista dell’orchestrazione e del risultato strumentale (ma non mi addentrerò, come al solito, in faccende tecniche, che lascio volentieri ai musicologi, essendo io un semplice spettatore ed ascoltatore, niente più).
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Wagner in un tweet e una domanda

L'oro del Reno_Marina MussetUn tempo si sarebbe detto “in pillole”. Ora va di moda riferirsi al celebre cinguettio globale. Ma la sostanza non cambia.
Per ascoltare l’intero ciclo dell’Anello del Nibelungo di Wagner occorre darsi molto tempo: dura circa 17 ore – dall’alba al tramonto se si è in estate – da moltiplicare per svariate volte se si vuole studiare e gustare appieno. (Magari, se e quando andrò in pensione…). Wagner ci mise ben 26 anni a concepirlo, scriverlo e terminarlo (con una lunga pausa nel mezzo).
Il direttore d’orchestra e musicista Lorin Maazel ha però in parte risolto il problema scrivendone una temeraria “riduzione” – The ring without words – una suite sinfonica concepita per esaltarne i passaggi orchestrali essenziali: un intero ciclo drammatico concentrato in 70 minuti di musica.
Ad un primo ascolto in cuffia ero rimasto molto colpito dall’incipit, quasi una rappresentazione sonora del concetto di arché così come l’avevo trovato espresso nel libro di James Warren su I presocratici: un che di sorgivo e nel contempo fluente, un sorgere-fluire permanente, che però viene dalle cavità più profonde, dai precordi dell’essere. Del resto si tratta della rappresentazione sonora di un fiume, l’oro del Reno da cui tutta la vicenda prende avvio. Un’impressione che mi è stata poi confermata da un passo del critico letterario Francesco Orlando, il quale scrive:

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Auferstehung!

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Io non credo nella resurrezione, tanto meno in quella cosa stupida e un po’ noiosa che è l’immortalità. Non ci credo perché sono convinto che non ci siano ragioni sufficienti per ritenerle cose logiche e razionali. Al più potrei concedere – dal punto di vista logico e razionale (cioè dall’unico che conosco e su cui sono in grado di argomentare) – che vi sia qualcosa come l’eternità. Un concetto peraltro algido, insapore e incolore – un po’ come l’essere. Ma non la resurrezione, così come viene religiosamente intesa. Che senso ha morire per poi risorgere? Risorgere dove, poi? Ecco, sono un immanentista materialista razionalista radicale.
Però Mahler dava molto credito alla favola della resurrezione, tanto da dedicarvi una delle sue più vaste sinfonie – la Seconda, nota appunto come Auferstehungs-Symphonie.
In questi miei fortunati anni mahleriani – ormai due decenni di ascolto appassionato, spesso dal vivo, e di meditazione – non mi era ancora capitato di scrivere qualcosa su questa sinfonia: ho parlato in questo blog – mi pare – della Prima, senz’altro della Terza, della Sesta (che avrò la fortuna di riascoltare domani), dell’Ottava (evento della stagione musicale milanese), della Nona, del Canto della terra, ma non della Resurrezione.
Si tratta di una sinfonia programmatica, che già annuncia l’intero progetto estetico mahleriano, fin dalle parole scritte nella guida all’ascolto (poi fortunatamente soppressa): all’eroe titanico della prima sinfonia, ora morto, viene posta la grande domanda: perché sei vissuto? perché hai sofferto? è tutto questo solo un grande, atroce scherzo?
Mahler intende rispondere con l’ultimo movimento della sinfonia (una conclusione sofferta e a lungo ricercata) – quel vasto poema sinfonico a quadri che si chiude con i versi del poeta tedesco Klopstock:

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Immensa dispensatrice di gioia

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Ho realizzato un sogno ormai ventennale lo scorso 23 novembre, quando finalmente ho potuto ascoltare dal vivo per la prima volta l’Ottava sinfonia di Mahler – l’unica che mi mancava, la più complicata da intercettare (non solo in Italia), dato l’organico immenso che richiede.
I mahleriani sanno bene che si tratta di un vero e proprio monstrum della storia musicale e sinfonica, passato alla storia come “sinfonia dei Mille” (l’idea venne all’impresario che ne organizzò a Monaco la prima esecuzione, il 12 settembre 1910, con direzione dello stesso Mahler, il quale si trovò di fronte oltre mille tra musicisti e cantanti e qualcosa come 3000 persone nel pubblico, tra cui parecchi celebri musicisti dell’epoca, scrittori del calibro di Thomas Mann, principi, ministri e compagnia cantante – è proprio il caso di dirlo).
Al centro congressi del MiCo, nell’area della vecchia fiera di Milano, erano 570 e a dirigere c’era Riccardo Chailly: un evento memorabile che difficilmente si ripeterà nello stesso decennio (l’Ottava mancava da Milano da ben 27 anni).

[Rileggendo quel che ho scritto finora mi rendo conto che è il parossismo il filo conduttore: è troppo, eccessivo, eccezionale, oltremisura, esagerato… qualcosa che le parole non riescono nemmeno a contenere; oppure, viceversa, che alimenta il loro stesso carattere retorico e parossistico, quasi che siano loro a prendere il volo e a gonfiarsi più del dovuto].

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La peste di Tadzio

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Chi volesse cimentarsi in una sorta di “esperienza estetica totale”, potrebbe ad esempio passare un’intera giornata in compagnia di un precipitato artistico che nel Novecento ha avuto pochi eguali: cominciare al mattino leggendo La morte a Venezia di Thomas Mann; ascoltare – possibilmente dal vivo – la Quinta Sinfonia di Mahler (con particolare attenzione al celebre Adagietto), ed infine compiere l’opera con la visione del film di Luchino Visconti Morte a Venezia (se non ricordo male l’omissione dell’articolo non fu casuale). Se poi al malcapitato fruitore dovesse restare tempo, potrebbe anche provare a dare un occhio al melodramma di Britten – ma credo che già così la sopportazione estetico-percettiva avrebbe raggiunto il livello di guardia. E quella che si annunciava come una straordinaria esperienza estetica volgerebbe ben presto in un asfittico incubo estetizzante.
(Un mio amico filosofo, a tal proposito, soleva dire che, insieme a psicologismo e narcisismo, l’estetismo è uno dei grandi mali che affliggono la nostra epoca – e tutti e tre questi -ismi confluiscono nel male più grande di tutti, che è poi il solito nichilismo. Io non so se avesse ragione, ma certo di alcune morbose manifestazioni socioantropologiche occorre tener conto).
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Symphonia sive natura

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Die Welt ist tief,
und tiefer als der Tag gedacht
(F. Nietzsche)

La rappresentazione della totalità è un antico sogno, e non solo delle filosofie o delle religioni. La filosofia greca nasce evocando il tutto, e cercando di individuarne senso ed origine. E, tutto sommato, da lì non si è più mossa nei successivi 2500 anni. Anche le religioni, con la geniale e consolatoria invenzione di dio, evocano un ente sommo che riconduca a sé tutte le cose, altrimenti frante, irrelate ed incomprensibili.
Tuttavia è evidente come il tutto o la totalità (che, tra l’altro, sono concetti con sfumature semantiche diverse) non siano mai esperibili, se non in termini di immaginazione (che è base ineludibile dell’astrazione). Il tutto non si presenta mai qui e ora – poiché è ovunque e sempre. È insomma uno di quei concetti-limite soggetti ai continui alambicchi e rovelli della ragione (un po’ come il nulla, l’essere, il tempo, il divenire), su cui da sempre si discute e, presumo, sempre si discuterà in maniera pressoché inconcludente.
C’è però una modalità di accedere al tutto che trovo interessante e forse più soddisfacente di quella speculativa: le sue elaborazioni ed espressioni estetiche. Mahler è certo uno di quei musicisti che aveva ben chiaro il progetto, perseguito lungo tutta la sua vita, di dare alla propria musica (che in verità non è mai “propria”) tale respiro universale e totalizzante. E se c’è una sua opera che tenta di assurgere alla dimensione di opera-totale, quella è propria l’immensa Terza Sinfonia – non a caso la più lunga della sua produzione. Una sinfonia che si propone di rappresentare la natura nella sua totalità – nientemeno!
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