Fenomenologia delle serie tv

Già in qualche occasione avevo segnalato l’alto tasso filosofico di alcune serie televisive (basti pensare a Six feet under oppure a Lost o anche a Breaking Bad, The walking dead, House of cards, e l’elenco potrebbe continuare): un po’ perché il loro livello qualitativo è enormemente cresciuto da qualche decennio a questa parte, un po’ perché l’esplorazione del mondo – ma anche dei mondi possibili – da parte degli autori si è fatta sempre più sofisticata e sorprendente. Del resto la meraviglia di fronte al mondo (o agli infiniti mondi) non è una delle qualità essenziali del filosofare? Ricordo ad esempio che rimasi per anni fulminato da X-Files, forse per quel voler vedere quel che gli altri non vedevano – o non volevano vedere – e per gli effetti stranianti e per la messa in discussione della verità ufficiale, con quel paranoico I want to believe di Mulder, e poi lo scientismo e lo scetticismo dell’agente Scully – insomma, i fondamentali della gnoseologia e della ricerca filosofica.
In verità su questo blog si è insistito di più sul cinema, forse perché più semplice da recensire, o più immediatamente identificabile con alcune tematiche filosofiche forti. D’altro canto, parallelamente al diffondersi della mania seriale televisiva, abbiamo assistito all’uscita di saggi che analizzano il fenomeno, dai Simpson a Lost, dal Dottor House fino addirittura all’orripilante Peppa Pig – anche se forse la bibliografia più ampia la detiene ancora Matrix, per quanto non si tratti di serie televisiva, ma cinematografica.
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Petite Poucette

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Trovo quantomeno strana, e talvolta disdicevole, l’abitudine di alcuni editori italiani di tradurre (e tradire) il titolo di un testo di un’altra lingua, così da darne una presentazione in alcuni casi fuorviante. Se è vero che il titolo è un frammento del testo, allora non si capisce perché anziché Pollicina (Petite Poucette), il breve pamphlet di Michel Serres sulle nuove generazioni nativo-digitali sia stato tradotto Non è un mondo per vecchi, scimmiottando malamente il romanzo (poi film) di Cormac McCarthy.
Detto questo, il testo di Serres è una scorribanda alla velocità della luce (e in salsa francese) della rottura epocale che le nuove tecnologie digitali stanno generando nel mondo della cultura: cambio di paradigma dell’oggetto cognitivo, liberazione dei corpi dalle caverne del sapere, superamento dell’ordine concettuale (addirittura!), fine della dittatura della pagina e dell’ordine libresco, e così via.
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Diecimila mondi

Una perla rubata a McCarthy per il mio genetliaco – anche se si parla di giovani, e io ormai non lo sono più: almeno avessi ancora tutti quei mondi da scegliere…

“Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le loro figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro il freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé”.

(Cormac McCarthy, Cavalli selvaggi)

Riots!

Se i polli d’allevamento stanno tutti ordinati nelle loro batterie, consumano composti nei centri commerciali (e, al più, sbevazzano e rumoreggiano nelle movide cittadine) – allora sono tubi vuoti e senza valori, nei quali insufflare l’unico valore;
se invece manifestano, alzano la voce, s’incazzano – allora diventano violenti e teppisti.
Certo, non si tratta di un aut-aut. Non funziona nemmeno la logica classificatoria che vorrebbe erigere recinti e classificazioni rigide. O di qua o di là. La bellezza dell’essere giovani e sorgivi sta anche – anzi, direi soprattutto – nel mettere in discussione le classificazioni, nell’essere in grado di spiazzare e di sorprendere il mondo, nell’imprevedibilità. La novità della nascita: qualcos’altro sorge all’orizzonte.
Da questo punto di vista, la violenza politica, la rabbia e gli scontri di piazza, fanno parte di una logica pre-scritta. Così come pre-scritte e pre-determinate sono le cornici entro cui quei fenomeni vengono ridotti, spiegati e gestiti (specie dai promotori dell’ordine).
Anche qui, vi è il rischio di un aut-aut: il potere (che per sua natura è violento, anzi è violenza assoluta – monopolio della forza, che è violenza trasfigurata o dissimulata) non può ammettere nessun contro-potere. L’ordine è per sua natura in radicale contraddizione con la sommossa.
Ma nei conflitti europei di questi ultimi mesi (da Londra ad Atene, da Parigi a Roma), c’è qualcosa di più. Continua a leggere “Riots!”

Adolescenti I – Narcisi omologhi e conformi

Si parla continuamente di adolescenti. A proposito e (più spesso) a sproposito. L’adolescenza età della crisi, dell’incertezza, della scoperta di sé e del mondo. Età balorda. Età meravigliosa. Età passeggera… Ma l’adolescenza è anche (se non soprattutto) una costruzione sociale e culturale. Si può tranquillamente affermare che è stata inventata, e piuttosto di recente. Un tempo si era bambini, e poi di botto, con qualche rito secco di iniziazione, si diventava adulti.
Ora, io non so bene dire se questa “età di mezzo” serva alla specie (che ha allungato oltremisura il periodo dell’apprendimento e della formazione) – ma so per certo che è quantomai funzionale al mercato. Il dispositivo adolescenziale è in realtà una straordinaria mucca da mungere. Una gallina dalle uova d’oro. Un immenso business. Gli adolescenti hanno bisogni e (soprattutto) desideri pressoché illimitati. Ma proprio per questo, perché mai dare a questa età di transizione dei limiti? Perché non adolescentizzare gran parte della vita degli individui? Non a caso alcuni psicologi francesi hanno coniato il termine adulescence (kidults in lingua inglese, adultescenza in lingua italiana).

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L’invettiva di Socrate

Socrate! (Attaaaaack!)
Io accuso

l’intera comunità degli adulti
di avere corrotto sistematicamente l’infanzia e la fanciullezza. Di averne deturpato il volto, il senso, la bellezza. Di averne distrutto la poesia, la meraviglia, la novità.

Accuso i genitori e le famiglie
di aver permesso che i loro figli nascessero in una società marcia, sudicia e profondamente immorale. Li accuso di aver messo al mondo i loro figli per lo più a casaccio. Li accuso di non averli amati a sufficienza, di averli lasciati in balìa del mondo, di non aver saputo resistere all’istinto riproduttivo.

Accuso gli imprenditori, i pubblicitari, il sistema economico
di avere mercificato le anime, le menti e i corpi fin nella culla. Di avere insozzato i bambini con il loro denaro, il loro desiderio di accumulo, la loro sporcizia consumistica. Di avere avvelenato l’aria, la terra, l’acqua, gli ambienti e i mondi delle future generazioni, dichiarando loro una vera e propria guerra preventiva.

Accuso l’intero sistema

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Diciassett’anni!

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Ho intervistato MDB, adolescente diciassettenne figlio di amici, quest’estate. Proprio in quel periodo stavo cominciando a scrivere una “cosa” (un racconto o un romanzo, non sapevo e non so ancora) su un gruppo di ragazzi di provincia mediamente annoiati, nichilisti e superalimentati (da un mare di sciocchezze, oltre che di cibo e di merci). La storia non è progredita granché, e non so ancora bene che cosa succederà. Anche l’intervista è rimasta a dormire per alcuni mesi, finché l’altro giorno non mi sono deciso a trascriverla e, ora, a pubblicarla.
Quando avevo chiacchierato con MDB, facendogli quella sfilza di domande un po’ pretenziose, avevo in verità trovato le sue risposte un po’ insipide, forse troppo lapidarie e in qualche caso persino reticenti. Risentendole a distanza di tempo, mi sono del tutto ricreduto. Ed ecco la lezione appresa: a) mai pensare che qualcuno, specie con trent’anni in meno di te, sia assimilabile e riconducibile ai tuoi schemi mentali; b) diffidare della dilagante ed omologante doxa che vorrebbe tutti i ragazzi ridotti a vuoti tubi desideranti (ma questo già lo sospettavo); c) scendere definitivamente dal piedistallo e lasciare spazio al nuovo che avanza, anche se questo nuovo non ci piace o non lo comprendiamo.
Infine: le risposte di MDB sono semplicemente belle, spontanee, nette, anzi direi proprio ammirevoli. Se poi si confrontano con quelle disperanti dei suoi coetanei protonazi che avevo raccolto circa un anno fa…
Non ho ritoccato nulla, mi sono solo permesso di sottolineare i passi che mi sono piaciuti di più.

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ONDA SU ONDA

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Ieri ho scioperato e sono andato in manifestazione, a Milano, in compagnia del mio amico Roberto. Abbiamo girovagato un po’ in piazza Cairoli, luogo del concentramento dei Cub e dei Cobas, e poi abbiamo deciso di seguire l’Onda. Ci siamo accodati al corteo degli studenti medi. Io potevo sempre figurare come un prof simpatizzante (alcuni in effetti c’erano). Roberto, con la sua macchina fotografica, aveva l’aria più svagata e giovanile del reporter.

L’onda.
Una bella idea di autorappresentarsi.
Movimento oscillatorio, variabile, sussultorio, vibrante.
Propagazione ed energia – senza materia!
Onda elettromagnetica.
Moto ondoso, che fluisce e rifluisce, frange, infrange e si rifrange.
Onde meccaniche, longitudinali, acustiche, sonore, trasversali, sferiche, elastiche, superficiali, armoniche, periodiche, stazionarie, solitarie.
Onde lunghe, microonde, raggi e radiazioni cosmiche.
Onde gravitazionali (che non si sa bene cosa siano…).
L’onda viene da lontano e va lontano. Sono corpi ondeggianti e menti pensanti.
Ora c’è, è visibile e talvolta impetuosa, poi si nasconde nei meandri del sottosuolo e si fa carsica. Per rispuntare all’improvviso. Sembrava non ci fosse più, invece era laggiù, nei sotterranei della storia.
L’onda è simpatica e ti accoglie. Ci scivoli sopra, ti ci immergi.
Ma poi diventa impetuosa, anomala.
E allora può travolgere tutto e tutti.
Onda d’urto.
L’onda è pervasa da correnti che vengono da lontano.
L’onda lunga della storia.
L’onda corta dei singoli.
Che ogni tanto si incrociano e si combinano.
Mille onde, una dopo l’altra, senza fine.
Un’unica ondata, tranquilla e poderosa, massa d’acqua imponente.
Onda.
Bella parola. Ricca. Densa di cose, teorie, metafore.
Sì, si sono scelti un bel modo di rappresentarsi.
Purché se lo tengano stretto.
E’ roba loro.
Io ho attraversato l’onda per un piccolo tratto.
E l’onda mi ha attraversato.

Siamo in Piazza Fontana, è il 12 dicembre, 39 anni dopo. Un ragazzo e una ragazza puntano decisi verso di me e mi chiedono in maniera secca: “sì o no?”. Io, che di solito prediligo il no, questa volta dico “sì” e loro mi rispondono con un sorriso largo di assenso. Sono entrambi bellissimi. Ma chissà cos’avevano in mente, che cosa intendevano dire? Boh? Poco importa…
Poi c’è quest’altro ragazzo con il rossetto in mano, che mi colora le guance. Ecco, anch’io adesso ho tracce dell’onda sulla mia pelle.
L’onda vuol lasciare un segno.
L’onda vuol incidere e decidere.
L’onda vuole prospettare un futuro.
L’onda è già una forma di futuro.
Ma ora mi tocca di andarmene, devo lasciarla, rifluire, d’altra parte è roba loro, io non c’entro.
Il cielo è livido.
Restano quei segni sul viso che cominciano a colare misti di pioggia.
E qualcosa di sottile, nascosto laggiù, dietro la bardatura real-razionale e post-hegeliana che irretisce la mia mente, un baluginìo impercettibile che fatico a chiamare “speranza“, per paura di apparire troppo retorico e un po’ sopra le righe persino a me stesso. Parola scandalosa e inconfessabile.
Loro sono l’onda, e quella parola.
Io, i resti sparsi sulla spiaggia…

foto di ro_buk